Il teatro come elemento ricorrente nel percorso di una raffinata intellettuale
“La linfa di perennità del teatro”: in questa meravigliosa frase da lei pronunciata in occasione della finale di Teatro Match – Il gioco del teatro, presso il Teatro Sancarluccio di Napoli, si condensa tutto il credo di un’artista come poche, Lucia Stefanelli Cervelli. Sociologa, letterata, professoressa, saggista, poetessa, attrice, sceneggiatrice; ma questo è notorio, lei è molto di più. Nel nostro piacevolissimo incontro risaltano intelligenza, preparazione e professionalità, ma anche dolcezza, sensibilità e amore per la vita.
Intanto, per farsi conoscere meglio, ha avuto la premura di farmi dono di due dei suoi libri: “Teatro”, che raccoglie testi per la scena in vernacolo e in italiano, e la raccolta di Poesie “Fuori di persona” del 2012, che reca in quarta di copertina una sua incisione.
Con tono scherzoso si apre, si confessa; regola perfettamente la voce e, con sguardo attento, cattura tutta la mia attenzione.
Quello con il teatro è un legame innato, inscindibile. La madre, soprano del San Carlo, le ha trasmesso la passione per questo incantevole universo, ma non ha voluto vi si dedicasse totalmente. Eppure, tutta la sua carriera si riconduce sempre al teatro cui si trova ad approdare in modo quasi ciclico, dal quale parte e ritorna ogni sua azione, per il quale ha speso una vita intensa ed appassionata. Ritmi assurdi, sfiancanti, facendo tantissime cose in contemporanea, ma con gioia e soddisfazione: insegnamento a scuola, all’università popolare per 6 anni con il corso di laboratorio, teatro, sociologia della comunicazione scenica, all’Associazione Internazionale Accademia “Vincenzo Bellini” per 24 anni con il corso di dizione e recitazione; poi il lavoro all’associazione e molta recitazione con i ragazzi. E, nel frattempo, si dedica alla scrittura di poesie, testi di scena, narrativa. Vince il Premio di Cultura della Presidenza del Consiglio per il saggio dell’83 “Condizione di handicappato”: emozione, amore, tormento, sofferenza, esperienza personale racchiusi in questo testo dal forte impatto sociale. Si fa notare dai grandi; scrivono di lei intellettuali del calibro di Domenico Rea, Claudio Magris, Giorgio Barberi Squarotti, Gianfranco Bartalotta, giusto per citarne alcuni. In attesa di pubblicazione è, al momento, “L’innocenza dei perversi”, serie di racconti che già godono della prefazione di Ruggero Cappuccio, in cui denuncia la cattiveria come prodotto della grettezza, della volgarità e di un ispessimento della coscienza.
“Il teatro è stata sempre la direzione del mio linguaggio perché io parto dalla ‘parola’. La parola più alta è quella della poesia, perché polisemica, perché parla per connivenze analogiche, perché incide nell’interno. La parola poetica trova nel teatro la sua celebrazione e, nello stesso tempo, il suo esproprio. Il teatro non è fatto solo di testualità; nella sua versione scenica, diventa multicodice. La bravura dell’attore è quella di veicolare un’intenzionalità; attraverso questa possibilità la parola viene dilatata al massimo”.
Nel ’90 fonda, insieme al regista Gianni Spataro, “L’Ascolto – Associazione di Cultura Teatrale per un Teatro di Parola”. Si interessano di Kammerspiel intendendo la linea che, passando attraverso Strindberg e Magris, unisce tutto quel teatro da camera che non è affatto aridamente ed aristocraticamente arroccato in uno sterile intellettualismo. Tiene a ribadire la “sacralità del testo” proprio perché il teatro occidentale nasce come grande teatro di parola, di poesia, ma sottolinea che ciò non significa non utilizzare il corpo, visto che la voce fa parte di esso, che l’emozionalità, l’espressione coinvolge. “Significa, invece, che la parte fisicale non dev’essere portata all’estremo per assottigliare sempre più lo spazio della parola”.
Altro grande equivoco che vuole chiarire è che il testo drammaturgico non è una sceneggiatura, è ben altro. Proprio per smentire questo errore, da due anni sta tenendo, presso la Sala Eventi di Homo Scrivens Edizioni, un corso con Aldo Putignano che “parte dal ricavare ciò che è il testo, non dall’affermare ciò che è un testo. Un testo non è certo una battuta al servizio di un’azione, non è un condensato di trama, la battuta dev’essere così necessaria, così capace di darti delle indicazioni non visive che veramente ti deve non solo catturare, ma ‘co-emozionare’, ritenendo, in questo caso, lo spettatore, il tuo principale interprete”.
Il laboratorio di scrittura teatrale è rivolto a coloro che vogliono penetrare nei segreti della scrittura teatrale, scomponendola in ogni più piccolo frammento per carpirne la magia, perché il passaggio da narrativa a sceneggiatura non è affatto facile o immediato, servono bravura, dedizione ed esercizio. Occorre riaffermare l’importanza e la necessità della meritocrazia. Il livello culturale si è talmente abbassato che ormai nega la pluralità di talenti diversificati. Il titolo ora è solo quello nobiliare, non culturale e distintivo. La cultura, continua Lucia, prima di tutto, è una coniugazione globale: se l’istruzione non è veramente formativa, è un’arma impropria. I giovani devono avere il coraggio di ribadire quello che è scomodo; tutto ciò che è comodo è facile ed è per tutti, bisogna invece distinguersi.
“Inquadriamo nella maniera giusta i talenti di ciascuno in modo da avere una società più armonica, più rispondente ed affidabile. Adoro il teatro perché è l’unica cosa democratica che ci è rimasta, sei lì da spettatore e dai il tuo parere obiettivo”.
Entra nel dettaglio e ci offre un esempio concreto. Nella sua esperienza di insegnamento all’Accademia Bellini, Ente Regionale di Rilievo Culturale, come saggio finale era solita far studiare agli allievi, perché avessero la misura di ciò che è il teatro, autori completamente diversi tra loro, per genere ed epoca.
Non ha alcuna preclusione per nessun testo, ma ama il rigore e l’onestà della parola. “L’attore deve essere ‘autentico’, che non significa essere ‘vero’. Non è possibile possedere la verità assoluta, mentre quella relativa ce la racconta la realtà delle cose. Chi scrive, chi crede nella parola, deve fare in modo che sia autentica, che la verità venga tradotta da questa parola, senza infingimenti, senza annegarla prima dentro a ciò che è di moda, a ciò che è ideologico, a ciò che è vincente, perché questo è il difetto del nostro tempo”.
Encomiabile, certo, il tentativo di recuperare l’autenticità del teatro e il testo nella sua genuinità depurandolo da quella che può essere la ruffianeria del tempo e della sua letterarietà. Decidiamo di approfondire. Ci spiega che in realtà la crisi del teatro è crisi di utenza: “abbiamo creato un popolo di ignoranti presuntuosi; l’ignoranza, di per sé, è saggezza, verginità, futuro, se non viene contaminata dalla presunzione”. Chiarisce poi il suo approccio all’arte: un’opera per lei è artistica se riesce a ‘diffidarla’, se il primo approccio la ‘disarma’ facendole dire con umiltà che non sarà mai in grado di realizzarla allo stesso modo. Oggi, invece, si fa l’opposto incorrendo in un peccato gravissimo, si incentiva l’indistinto, si desacralizza ciò che è sacro.
Lucia Stefanelli Cervelli crede fortemente nell’emozione come l’ultima possibilità su cui possiamo giostrarci; emozione, niente affatto sentimentalismo! Denuncia i pessimi maestri che abbiamo avuto che ci hanno spinto agli estremismi, mentre una vera e propria sconfessione di sé non la fa nessuno.
Perché si operi un lento ma rigoroso cambiamento occorrono giovani consapevoli, pazienti e profondi.
“La vita è pesante se non la vuoi superficiale, la parola è densa se non la vuoi ‘flatus vocis’, tutto ciò che ha valore deve avere una consistenza. Occorre abituare fin da bambini, non aver paura della noia del bambino, provocando i ragazzi con qualcosa che è più alto della loro età. É una bella sfida, incentivare con fiducia e credito. Anche trovando argomenti di interesse più vasto”.
Passiamo quindi a “L’occhio fisso”, testo con duplice chiave di lettura, divertente e irriverente per il lettore, libro delle amarezze, delle denunce delle assurdità della vita per l’autrice, come “L’occhio strabico”.
L’omino, isolato dalla socializzazione a causa del disturbo visivo, riflette ed interiorizza e, per fuggire alla condanna della solitudine, colloquia con se stesso attraverso racconti monologanti.
L’assurdo connaturato nella ragione, nel senso che siamo incapaci di comprenderne tutte le ragioni.
Gli stessi giochi dei bambini in villa che non sono altro che una metafora della vita, ci spiega; lo scivolo, tanta fatica per salire e un attimo per scendere; o la giostrina che ti tiene già in parametri di distanza dal centro. O ancora, il primo protagonista de “L’occhio strabico”, Giovanni, che vuole fare le ciambelle perfette, ma non ci riuscirà mai perché parte dalla logica e dalla forma, deve invece iniziare dal buco. Stravolgere il punto di vista, cambiare prospettiva, rivoltare le etichette, rivoluzionare gli stereotipi: l’occhio strabico, perciò, diventa fisso. Ma non per questo la sua visione è meno reale, vera, vorace; anzi, diventa pedante.
Lo sguardo di Lucia, strabico o fisso che sia, orientato verso l’esterno o più interiore, prima “solo” ironico, bislacco, timido e meditativo diviene, nel corso del tempo, sempre più illuminante, irriverente, cogente e creativo. Disincantato, eppur in fondo ancora un po’ sognante, esprime l’impossibilità di una contemplazione acritica e la necessità di un naturale anticonformismo che metta tutto in discussione per poi ripartire da zero nella sua autoanalisi. È la morte della ragione quella che l’autrice vuole evidenziare. L’ossimoro regna incontrastato in ogni suo scritto come scelta consapevole e voluta, come conquista, come, appunto, “elogio della cecità luminosa”.
“Si arriva ad un momento in cui l’accecamento della verità ti fa preferire la menzogna dello spirito che è la tua grande illusione e la tua ancora di salvezza, diventa un approdo. Ci si arriva ad un’età più matura. L’ironia è sempre un approdo, e, come tale, è amara, ma non arriva alla cattiveria del sarcasmo perché c’è tanto amore ancora per gli altri e per l’umanità”.
Un’epifania rischiarante insomma per quegli intellettuali prima solo a riposo ora piuttosto delusi, ma sempre desiderosi di studiare, con il loro occhio indagatore, la realtà circostante. Tutto e il contrario di tutto: non rimanda forse a teatro e metateatro?
Dolcissima, con sguardo profondo, conclude “Tutto si fa nella speranza che i ragazzi ritrovino se stessi. Avete tutto dentro, dovete solo ascoltarvi, il futuro è dietro … ‘ti credi Ulisse e Itaca è alle spalle’”.
Poi mi sorride teneramente e aggiunge “Torna dentro di te e veramente ti ritrovi, hai tutto dentro devi solo ascoltarti”.
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.