È possibile regolamentare l’economia di mercato?
Nel corso della storia, lo Stato ha sempre avuto un ruolo rilevante nella gestione economica dei vari Paesi, ma dall’inizio de XVIII secolo circa, la controtendenza ha cominciato a mostrare il suo portato di notevole pregnanza.
Da quel momento in poi, alcuni economisti dichiararono che l’uscita di scena dello Stato dalla vita economica delle Nazioni, sarebbe stata soppiantata dall’equilibrio naturale che si sarebbe creato tra domanda e offerta, senza alcun intervento da parte degli organi di Stato.
La famosa mano invisibile, quella del mercato, di cui parla Adam Smith nel suo saggio del 1776, ‘La ricchezza delle nazioni’, era considerata dall’autore stesso l’emanazione divina di una forza amministratrice benefica dell’universo, in cui la felicità umana aveva raggiunto lo stadio più alto.
Un sistema perfetto in cui ogni individuo, cercando di raggiungere i propri obiettivi e la propria felicità, finiva, per forza di cose, con il fare la felicità degli altri, contribuendo, in questo modo, alla costruzione di una società naturalmente migliorata.
Quella di Smith è chiaramente una visione utopica del mercato, in cui la crescita esponenziale di questo, avrebbe avuto, secondo l’autore, una ricaduta diretta su tutti i componenti della società civile. Ovviamente, in realtà, un mercato che ha come mero obiettivo la crescita economica, senza le opportune regolamentazioni, è foriero di pessime condizioni di lavoro, annientamento delle risorse naturali e crisi finanziare di ampia entità.
Il sociologo ed economista viennese, Karl Polanyi, nella sua opera del 1944 ‘La grande trasformazione’, edita da Einaudi nel 1974, analizza ampiamente una annosa questione e cioè il bisogno di concedere al mercato ampio spazio, limitando fortemente l’intervento legislativo dello Stato, e contemporaneamente, la necessità di attutire i danni naturali e sociali recati dai meccanismi intrinseci al libero scambio.
Se si lasciasse libero il mercato, afferma Polanyi, questo minerebbe da subito le basi del vivere civile, le relazioni sociali, i rapporti di lavoro, la libertà e l’ambiente. Al contrario, se le leggi divenissero troppo severe nei confronti del mercato, controllando l’inquinamento, i contratti di lavoro e lo sfruttamento delle risorse naturali, si annullerebbe il mercato stesso. Questa contraddizione continua ad essere, tuttora, una controversia irrisolta e fortemente dibattuta.
Durante il XIX secolo i governi di tutto il mondo cercarono una via di mezzo tra le due strade, da un lato si posizionarono le economie di orientamento statalista dei Paesi socialisti, l’Unione Sovietica, la Cina prima del 1980 e Cuba; dall’altro si schierarono le economie capitaliste degli Stati Uniti, dell’Australia e della gran parte dell’Europa occidentale. Entrambi i modelli economici, in alternanza, concessero spazio e posero veti senza mai arrivare a un giusto compromesso.
Negli anni Sessanta, John Maynard Keynes, economista inglese, promulgò una politica economica per la quale i governi avrebbero dovuto regolamentare, attraverso accise, imposte e tassi di interesse, l’andamento del mercato. Gli Stati Uniti e il Canada videro, in quel periodo, accrescere enormemente le loro rispettive economie, grazie ad una buona legislazione, alla forte presenza dei sindacati e a un regime fiscale di controllo da parte dei governi.
Negli anni Settanta tutto questo fu presto trasformato a causa del forte rallentamento dell’economia. A quel punto i governi cominciarono a pensare che lasciare completamente libero il mercato portasse ingenti miglioramenti, trainati in questo da alcuni filosofi, sociologi ed economisti, tra i quali Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Milton Friedman e Karl Popper, che privilegiavano l’idea di una totale fuoriuscita dello Stato dalle rispettive politiche economiche. Questa filosofia economica è il Neoliberismo, spesso associato alla globalizzazione.
I neoliberisti si definirono liberali rifacendosi agli ideali di libertà e nuovi perché aderivano ai principi delle teorie economiche neoclassiche, da sempre schierate contro il pensiero economico keynesiano e contrarie al coinvolgimento dello Stato nelle dinamiche di mercato. I singoli imprenditori, per i neoliberisti, dovevano essere lasciati liberi di operare in un contesto che predilige il diritto individuale, la proprietà privata, il libero scambio e il libero mercato.
In un siffatto panorama, lo Stato non dovrebbe in alcun modo interferire, bensì occuparsi principalmente delle forze armate, delle strutture militari e legiferare a tutela dei mercati. Inoltre, in caso di necessità, i neoliberisti ritenevano fosse opportuno privatizzare settori come la scuola, la sanità, la sicurezza e le risorse naturali quali l’acqua e la terra.
Lo Stato, insieme a organizzazioni come i sindacati e gruppi di ambientalisti, costituisce, per questo modello economico, solamente un intralcio al buon funzionamento del mercato e alla crescita economica.
Concludendo la sua opera, appunto già nel 1944, Karl Polanyi, afferma che l’economia è nel mondo moderno una sfera completamente scissa da tutto il resto, autonoma rispetto a tutte le altre istituzioni sociali e politiche.
E chissà se questo è un bene.
Autore Marilena Scuotto
Marilena Scuotto nasce a Torre del Greco in provincia di Napoli il 30 luglio del 1985. Giornalista pubblicista, archeologa e scrittrice, vive dal 2004 al 2014 sui cantieri archeologici di diversi paesi: Yemen, Oman, Isole Cicladi e Italia. Nel 2009, durante gli studi universitari pisani, entra a far parte della redazione della rivista letteraria Aeolo, scrivendo contemporaneamente per giornali, uffici stampa e testate on-line. L’attivismo politico ha rappresentato per l’autore una imprescindibile costante, che lo porterà alla frattura con il mondo accademico a sei mesi dal conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Da novembre 2015 a marzo 2016 ha lavorato presso l’agenzia di stampa Omninapoli e attualmente scrive e collabora per il quotidiano nazionale online ExPartibus.