Si alzano severe, in queste ore difficili, urla d’indignazione per la ripresa del campionato di calcio. E francamente ci convincono poco, nonostante gli autorevoli pareri contrari.
Lo sport svolge una funzione complessa nei confronti delle vicende individuali e collettive, e non è affatto facile tirare le somme sul suo ruolo sociale. Nei regimi autoritari, passati e presenti, la funzione di distrazione di massa, di ‘copertura’ e di autocelebrazione verso l’esterno non sono un mistero. Non serve richiamare la Roma imperiale, basta tornare con la mente a Germania ’74, con la nazionale cilena impegnata a ripurlire un Paese dal sangue indelebile del golpe.
La cosa si complica quando lo sport non è immediato strumento del potere ma normale risposta di un popolo alle difficoltà che fronteggia. In questo caso può assumere funzioni diverse, da quella grossolanamente distraente, a quella spontaneamente difensiva a quella catartica, liberatoria, ‘soteriologica’ – elementi in passato riconosciuti al ruolo della tragedia greca nei confronti della pòlis – di un’intera nazione.
La sfida infinita tra Coppi e Bartali tenne viva un’Italia in ginocchio durante la guerra, aiutandola a rialzarsi immediatamente dopo: fu ancora Bartali, con l’incredibile rimonta su Bobet al Tour de France del ’48, a far brillare il pericoloso ordigno civile innescato con l’attentato a Togliatti.
Si sbaglia se si chiede allo sport di garantire una purezza meta-sociale che non gli è propria e si sbaglia ancor di più se si chiede silenzio, privando la società di uno dei meccanismi di riequilibrio più efficaci di cui dispone.
In America – come ha giustamente sottolineato qualcuno – un campionato di football che non si ferma dinanzi ad una tragedia sarebbe segno dell’orgoglio di un popolo che non si arrende, che torna ostinatamente alla normalità. Perché è proprio la riconquista della normalità, e non l’urlo straziante o l’accusa veemente, a fungere da calmante.
Ciò che risulta formale e banalizzato, semmai, appare l’ormai consueto imperativo censorio al “silenzio” alla “vergogna”, verso qualsiasi cosa si faccia ed il suo contrario.
Tornare alla normalità, per quanto banale essa sia, non vuol dire necessariamente dimenticare. Se non piace lo sport o il calcio, a prescindere, o per come è diventato, ci sono stati e ci saranno mille altri momenti per rilevarne i difetti. Ma non è questo il momento di pontificare sulla sua frivolezza, ed anzi il farlo, invocando incinerato e sommesso rigore, rende profondamente frivoli.
Autore Giuseppe Maria Ambrosio
Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.