Chi ha la conoscenza della propria “imperfezione” è affetto da un’incurabile curiosità, perché non si sente depositario della conoscenza infusa.
Rita Levi Montalcini
Li vedete i manuali in ogni libreria: ognuno vende la sua ricetta per la felicità e per la perfezione.
Ce ne sono alcuni che nascono per darti dritte su come emergere dal buio dell’anima, altri che scavano nelle profondità del proprio essere per dare luce al proprio io vero, altri ancora che ti spiegano che essere imperfetti è l’unica verità di cui abbiamo bisogno.
Ad esempio, impazza in Giappone il wabi-sabi.
Esso è un termine intraducibile. Composto da due parole che significano “semplicità” e “bellezza che deriva dallo scorrere del tempo”, si riferisce ad una sensibilità estetica che si è sviluppata nei secoli fino a diventare una filosofia di vita che potrebbe aiutarci a trovare serenità, ispirazione e libertà nella quotidianità.
Secondo questo approccio, nulla è eterno: ogni cosa è incompiuta e la chiave sta nell’imparare ad accettare la vita così come si presenta, con la sua imperfezione e impermanenza.
Possiamo definirlo un metodo che indaga in profondità come funziona la motivazione e aiuta a trasformare i propositi in realtà e facendoci perdonare i nostri errori, concentrando le energie sulle cose che si possono cambiare.
Pare che adottare un atteggiamento realistico, contestuale e rilassato ci possa consentire di assaporare la bellezza umile, non convenzionale di tutti i giorni, ampliando i nostri orizzonti e arricchendo, così, la nostra vita.
La vera realizzazione non dipende, infatti, da picchi di performance isolati o da effimeri stati di “flusso”, di totale, convogliato assorbimento in un’attività, ma deriva, semmai, da una serie di molte esperienze buone e costanti.
Non è possibile essere sempre felici e avere una vita in cui non succedono mai cose brutte. Gli imprevisti, lungo il cammino, sono tanti: guerre, pandemie, crisi economiche ma anche persone care che muoiono, altre che ci fanno soffrire o ci mettono i bastoni fra le ruote, incasinandoci i piani.
Come prima cosa, però, dobbiamo fare tabula rasa e ridefinire il campo di gioco. Come?
Imparando a capire cosa può portarci momenti di gioia e cosa no, e scoprire, guardando dalla parte giusta, il tesoro davanti agli occhi, che, accecati dalla luce fasulla di riflettori artificiali, non abbiamo mai visto. Perché, se ridefinisci il campo di gioco, magari puoi renderti conto che forse sei già felice e non lo sai.
Dove c’è perfezione, non c’è storia. In questo ambito entrano anche e soprattutto le imperfezioni. Sinonimo di fallimento per alcuni, di errore o di caduta, per altri diviene una spinta per migliorare.
Il terzo occhio che fa vedere le cose da un altro punto di vista. Le imperfezioni sono il vero segno dell’evoluzione e del possibile, come intuì Charles Darwin, e l’Homo sapiens ne è un esempio.
Il nostro corpo, il nostro DNA e il nostro cervello sono pieni di imperfezioni che hanno funzionato. Forse siamo così creativi proprio perché imperfetti.
Ricerche scientifiche recenti mostrano quanto la mente umana sia sentitamente ambivalente nel suo distinguere un “noi” protettivo da “l’altro” estraneo e potenzialmente minaccioso.
Questa attitudine, nel passato, aveva un senso; oggi, al contrario, rende purtroppo attraenti e ricorrenti il razzismo e il tribalismo fisico o digitale che sia. Dobbiamo imparare a convivere con le nostre imperfezioni e trasformare la fragilità in opportunità.
L’imperfezione ci aiuta a sviluppare la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri, di vedere le cose dal loro punto di vista e non solo dal nostro, di riconoscerci negli altri, di lasciar andare, di accettarci, di essere più comprensivi, di adattarci al cambiamento, di cogliere le opportunità quotidiane di crescita e di miglioramento, di accogliere la vulnerabilità e di dare valore a noi stessi in quanto unici, aggiungendo sostanza e profondità a tutto ciò che ci circonda.
Uno dei valori che sarebbe importante trasmettere già dall’infanzia è quello di saper apprezzare l’imperfezione che è in noi, soprattutto oggi, in un’epoca votata al consumismo in cui pare molto facile scartare tutto ciò che non risponde a criteri estetici omologati e spesso dettati dai mass media.
La vera sfida consiste, dunque, nella capacità di imparare ad apprezzare la bellezza delle piccole cose, anche quando sembra che quel che abbiamo davanti sia “diverso” ed “imperfetto” rispetto ai canoni attuali.
La capacità di tollerare i propri “limiti” significa donarsi la possibilità di essere più in pace con se stessi, di godere più profondamente della vita, di provare più amore verso se stessi e gli altri.
Possiamo quindi lamentarci, arrabbiarci, piangere per anni sulle nostre imperfezioni senza che nulla mai cambi o possiamo, invece, provare a cambiare prospettiva e lasciare che questo ci cambi.
Se non impariamo ad amare le crepe in noi stessi e negli altri, infatti, non potremo mai essere felici. Saremo sempre turbati, frustrati, insoddisfatti.
Solo attraverso questo difficile percorso, riuscendo ad amarci per quello che siamo, potremo tollerare l’altro e rispettare quella diversità che lo rende appunto unico e speciale!
Comprendere che abbiamo bisogno di imperfezione ci permette di abbracciare tutti quegli stimoli che ci spingono a trovare soluzioni alternative ai soliti problemi. La creatività, in fondo, non è nulla di più che un pensiero differente, magari inizialmente considerato imperfetto.
È grazie all’imperfezione, della nostra vita e del nostro essere, che siamo in grado risolvere problematiche sempre più complesse. La nostra natura imperfetta racchiude in sé la possibilità di fallire, di creare sofferenza negli altri e dentro di noi; giustifica il dolore quando lasciamo che un amore finisca e quando diventiamo genitori troppo fragili per essere presi a modello dai nostri figli.
Il nostro essere imperfetti giustifica tutti gli errori di valutazione che facciamo, le fughe, i salti nel vuoto, le bugie che spesso raccontiamo a noi stessi e agli altri.
Siamo così presi dal bisogno di perfezione da credere che anche il nostro cervello, in fondo, sia una macchina perfetta. Esso è sicuramente uno dei sistemi più complessi che la natura abbia generato, ma, di certo, non è perfetto, anzi.
Lo stesso vale per il nostro corpo, il quale ha assistito ad una serie di anomalie, dovute all’evoluzione, necessarie per lo sviluppo dell’esistenza umana.
La nostra storia è piena di situazioni in cui un vantaggio evolutivo si contrappone ad un effetto collaterale che aumenta i nostri limiti. Ecco perché dobbiamo imparare a dare valore a quest’ultimi.
Senza di essi, senza tutte quelle imperfezioni che caratterizzano il nostro cervello – emotività vs razionalità, sentimenti vs ragione, ecc… -, non saremmo in grado di tendere al meglio, a migliorarci, a rendere, in altre parole, la nostra vita “perfetta”.
Tutti noi, in quanto umani, siamo esseri complessi, con i nostri difetti, le contraddizioni e le caratteristiche che ci rendono unici. L’imperfezione ci ricorda che la vita non è sempre prevedibile o controllabile.
La mancanza è uno stato dell’essere, in cui la perfezione e le qualità idealizzate sono assenti. Una condizione che accetta la presenza di errori, fraintendimenti, limitazioni. L’imperfezione è un aspetto naturale dell’esistenza umana e della realtà, che mostra l’unicità, l’individualità e la complessità dei diversi aspetti della vita.
Invece di essere percepita come un tratto negativo, essa può essere apprezzata per la sua capacità di aggiungere carattere, profondità, autenticità alle persone, agli oggetti e alle situazioni.
Il suo mistero non sta nella caducità della nostra vita, ma nella bellezza di viverla fino in fondo, consapevole che ogni passo può subire un inciampo, ogni fallimento può rivelarsi una rinascita.
Una vita passata a commettere errori non solo è più onorevole, ma anche più utile di una vita passata a non fare nulla.
George Bernard Shaw
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.