Il primo sciopero dell’Italia post-unitaria finito in un bagno di sangue
Il Regno borbonico contava ben 51 primati nazionali, tra cui la prima rete ferrata della penisola e un grosso polo siderurgico, quello di Pietrarsa, che sfornava locomotive e materiale ferroviario per tutta l’Europa, fiore all’occhiello dell’industria borbonica.
Durante una delle sue tante visite a Napoli, lo zar Nicola I, chiese e ottenne i progetti dell’intero opificio per implementarne uno simile in Russia, a Kronštad.
Nel 1860 i dipendenti dell’opificio erano 1125 e venivano ben pagati, in “grana” e con sole 8 ore di lavoro giornaliero.
Tutto cambiò con l’unificazione. Lo stesso governo dittatoriale di Garibaldi prima, e la luogotenenza sabauda dopo, avevano ridimensionato lo stabilimento, licenziando gli operai, riducendo la paga del 50 per cento e portando a 11 le ore lavorative.
Nel gennaio del 1863, il Real Opificio di Pietrarsa fu “concesso”, se non regalato, per trent’anni al milanese Jacopo Bozza, che può essere definito il primo oligarca ante litteram.
Dopo essere stato espulso dall’esercito austriaco, per aver aderito alla Repubblica di San Marco ed aver intrapreso una produzione di zolfanelli, Bozza, nel 1856 si trasferì a Napoli. Si dedicò alla costruzione della rete telegrafica, ma fu arrestato nel 1860 per spionaggio e tradimento per aver venduto ai nemici i dispacci del Re.
Con il suo arrivo, la situazione era ulteriormente peggiorata, portando all’esasperazione i lavoratori che misero in atto il primo sciopero dell’Italia sabauda.
Bozza aveva chiesto un’ora in più di lavoro, senza compenso e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Nella mattinata del 6 agosto 1863 il capo degli operai, Giuseppe Aglione, suonando a martello la campana dell’opificio diede il via allo sciopero e tutti i 668, lavoratori decisero di occupare l’officina.
Bozza, che uscì illeso dall’edificio, chiese l’intervento delle forze dell’ordine per reprimere il tumulto. Inoltre, qualcuno aveva messo in giro la voce che a Portici era in atto una rivolta di filo borbonici.
Una compagnia di Bersaglieri si attestò davanti ai cancelli della fabbrica che erano stati aperti dagli stessi manifestanti, quindi la situazione era “rientrata”, ma il comandante del battaglione ordinò ai soldati di fare fuoco sugli operai.
Le cronache del tempo riportano un bilancio di quattro morti, Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri, e una ventina di feriti costretti alle cure mediche per lesioni da taglio inferte dalle baionette dei soldati, che caricarono con furia cieca.
In realtà, si ipotizza che la drammatica conseguenza in termini di vittime debba essere stata più alta, probabilmente, per ovvi motivi, non tutta la realtà dei fatti fu tramandata dalla stampa dell’epoca. Molti dei morti e dei feriti di quel 6 agosto 1863 furono colpiti alla schiena o alla nuca mentre cercavano di mettersi in salvo.
Nessun testo scolastico cita questo atto eroico dei militi piemontesi che non si fecero scrupolo di aprire il fuoco su inermi operai.
La notizia scosse l’opinione pubblica e il governo fu duramente attaccato dalle opposizioni, ma l’inchiesta fu depistata e, grazie anche alla Legge Pica, non portò a un nulla di fatto. A pagare fu solo l’ufficiale che aveva ordinato di aprire il fuoco.
E Bozza? Il nostro filantropo cadde in una imboscata ma l’attentatore lo ferì all’avambraccio, ottenne un indennizzo e lasciò Pietrarsa.
Autore Mimmo Bafurno
Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. Ha pubblicato il volume "Datemi la Parola, Sono un Terrone". Attualmente collabora con terronitv.