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Le streghe buone: le vecchie del Vesuvio

1868
Amelia che vola


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Capita, camminando sovrappensiero, che lo sguardo venga attirato da un luccichio improvviso, un riverbero di qualcosa incastrato tra un sanpietrino ed un altro.

D’istinto ci si china, ed ecco una piccola moneta, che, quasi come riflesso condizionato, raccogliamo. Le nostre nonne ci dicevano che era un portafortuna, non era d’auspicio lasciarlo a terra, senza tralasciare l’immediato accostamento al cent più famoso al mondo, protetto in una teca, che ha reso multimiliardario un papero scaramantico.

Siamo cresciuti sfogliando fumetti, molto spesso prestati o comprati di seconda mano, un mito importato dagli Stati Uniti che ha incoraggiato intere generazioni a rincorrere il sogno, a comprendere che nulla è impossibile purché si sia tenaci nella volontà di raggiungere la meta.

Tante le tipologie e anche profondamente diverse, ma su tutti primeggia il beneamato Topolino, con la schiera di personaggi universalmente noti.

Leggendo avidamente, ecco che, nel dipanarsi delle storie che vedono come protagonista il ricco piumato, si delinea qualcosa di estremamente familiare a noi ragazzini di Napoli: è il nostro gigante che, tra fumo e scintille, nel suo cono, protegge la fattucchiera che ammalia.

Stiamo parlando di una papera che nel 1961 prende vita dalla matita di Carl Barks, e, da allora, ha come sua occupazione preferita dare del filo da torcere a Zio Paperone.

Le sue fattezze richiamano i caratteri peculiari della bellezza partenopea, un misto tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida: capelli folti neri, occhi grandi, dallo sguardo intenso, contornati da lunghe ciglia, carattere volitivo.

La sua ossessione più grande è riuscire ad ottenere il tocco di Mida, un filtro magico preparato nel suo crogiolo, un pentolone di rame nero che bolle sulla lava incandescente e che, tra intrugli ed erbe prodigiose della macchia mediterranea, aspetta di ricevere la famosa numero uno, il tutto controllato a vista dal corvo Gennarino.

Nonna ma è vero che sul Vesuvio ci sono delle streghe che non rubano i bambini?

Assiettete ‘nzine a nonna, mo’ te conte…

Più di cento anni fa, con la tremenda eruzione del 1858, la lava abbondante riempì un enorme vallone, meglio conosciuto come fosso grande, arrivando a San Vito, frazione di Ercolano

Da quel momento, di notte, urla spaventose e struggenti di una voce femminile iniziarono ad echeggiare in tutti i paesi adagiati sulle pendici del vulcano. La fantasia popolare attribuì questo vociare alle maledizioni della strega malvagia, una vecchia megera scacciata da Benevento, sepolta dal magma incandescente, che la divina provvidenza aveva incanalato su quel versante.

La leggenda narra che l’unico modo per liberarsi dalle incursioni notturne era riuscire ad acciuffarla alle spalle per i capelli e recitare la formula duettando:

Janara Janara ca ‘e notte me piglie, te piglie po’ vraccie e te tiro ‘e capille.

Che tiene mmano?

Fierro e acciaij.

Se per sbaglio le si rispondeva superficialmente capille, con un guizzo si liberava rispondendo

E je me ne scioglie comme ‘a n’anguilla.

Fu setacciata tutta la zona per cercare di capire la provenienza esatta e l’origine dell’orribile richiamo ma senza fortuna, per cui non rimase che rivolgersi alla Vecchia ‘e Mattovana.

La tradizione popolare rimanda con questo appellativo a una donna senza età, con lunghi capelli corvini, occhi grandi, che con i suoi incantesimi riuscì a zittire l’antagonista funesta, portatrice di sventura.

In una notte senza luna si recò tra i sassi del vallone, appena iniziò il vociare assordante, sottovoce avviò la sua litania incomprensibile e misteriosa.

Una cantilena dolce, quasi una filastrocca incantata, che magicamente ridusse al silenzio, placando ogni ribellione della maliarda, inducendola all’oblio perpetuo.

Le sue consorelle, turbate dal sortilegio, rientrarono nelle campagne intorno al fiume Sabato, non senza aver portato scompiglio tra il bestiame, sfinendo a morte diverse giumente.

Secondo il mito, la nostra benefattrice, discendente da una delle ancelle di Diana, continuò nella sua opera di soccorrere quanti ne avessero bisogno, tanto che qualcuno racconta di averla vista girare tra le case con la sua nipotina, intenta ad assorbire gli influssi negativi, continuando e tramandando l’antico retaggio, proteggere per sette generazioni la gente che in lei ripone fiducia.

Provate a girovagare tra i sentieri del Vesuvio, magari alla ricerca della Casa di Amelia verso la Riserva Tirone, con un po’ di fortuna potreste imbattervi in qualche anziana vestita di nero, intenta a trafficare tra vecchi bauli, che con fare benevolo si volta, vi rivolge uno sguardo che sembra penetrarvi come un dardo e, senza apparente motivo, pronuncia una frase, un detto o un’indicazione.

Parole con nessuna apparente connessione con il tempo e il luogo ma che, sorprendentemente, vi torneranno in mente quando, in un futuro più o meno prossimo, potranno esservi utile.

Se riuscirete a sostenere il suo sguardo, rispondendo con un sorriso, vi darà in dono ‘a pupatella, un minuscolo sacchetto, confezionato da lei contenente erbe e reliquie, e con dolce insistenza vi raccomanderà di tenerlo sempre con voi, ponendolo a contatto della pelle e celandolo alla vista di occhi estranei, come un tempo facevano Donna Teresa di Torre del Greco o ‘A Ciaciona di Ercolano, figlie di una terra incandescente ricca di riti e magia.

Autore Rosy Guastafierro

Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.