Settembre 2018
Prima della partenza per l’Ungheria non mi ero soffermato su quest’opera per la Memoria installata a Budapest. Ne avevo sentito parlare, avevo letto qualcosa ma senza approfondire. Un pomeriggio un messaggio di Antonello Massaro, amico di origini ebree, mi porta, però, sulle rive del Danubio per farmi ascoltare una storia a me sconosciuta.
Tra la fine del dicembre del 1944 e gli inizi del gennaio del 1945 si compì sulla riva di Pest del grande fiume l’eccidio di cittadini ebrei da parte del Partito delle Croci Frecciate -“Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom”, “Partito delle Croci Frecciate – Movimento Ungarista” -, partito filonazista fondato nel 1935 da Ferenc Szálasi.
Come per la svastica, che divenne il simbolo della superiorità e della purezza della così detta “razza” ariana, considerata progenitrice di quella germanica, così la croce frecciata fu presa dalla simbologia delle prime tribù magiare insediatesi in Ungheria per stabilire e rafforzare l’ideale della purezza della “razza” ungherese.
I destinati alla barbarie di quell’inverno venivano legati insieme, di solito a gruppi di tre, con le spalle rivolte alla riva pestina. Chi si trovava al centro aveva la sorte migliore: era l’unico ad essere ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Cadendo in acqua il corpo esanime trascinava sul fondo gli altri due compagni, ancora vivi, a lui legato. Simile fu il metodo utilizzato nei massacri delle Foibe. Una morte dolorosa, lancinante ed estremamente lunga.
Prima della mattanza ai poveri condannati venivano tolte le scarpe, perché merce costosa durante la guerra, da poter rivendere. L’ultimo legame con la terra veniva così strappato via.
Nel 2005, nella Giornata ungherese della Memoria per il 60° anniversario della Shoa, venne installata l’opera ‘Cipők a Duna-parton’, ‘Scarpe sulla riva del Danubio’, appunto, del regista Can Togay e dello scultore Gyula Pauer. Sono 60 paia di scarpe in ghisa poste proprio sulla banchina di fronte al parlamento.
Raggiungiamo questo luogo della Memoria affrettati, con passo veloce seguendo la via dei tram e di lì verso il parlamento e le scale che portano sulla banchina. Già dall’ultimo gradino quel procedere svelto inizia a rallentare. Un muro invisibile costringe i passi quasi a fermarsi. Anche il Danubio sembra in silenzio. Le Scarpe sono lì. Qualcuno ha posato in una di esse dei fiori ormai appassiti. Altri hanno lasciato delle piccole candele. Vedi, percepisci le figure sbiadite di quegli ebrei lasciare lì le proprie scarpe e camminare verso le acque scure del Danubio. Intorno altre persone si inginocchiano o abbassano lo sguardo, altri ancora sono lì a riflettere, a dare sfogo a quella Memoria in cerca di un posto per non essere dimenticata.
Il contrasto è forte: alle spalle il parlamento di un bianco lucente nelle cui stanze si sta rafforzando la politica nera di Viktor Orban, mentre sulla sponda del Danubio, ai piedi del suo nazionalismo di estrema destra, le scure scarpe di quest’opera sembrano fuggire dal passato che spinge per ritornare al presente.
I pensieri continuano ad andare incrociandosi con i 175 chilometri di filo spinato fatto installare al confine con la Serbia nel 2015, con i tanti senza tetto che affollano le strade intorno al centro di Pest e le scure stazioni della metro, si incrociano i pensieri con i passati recenti di stampo nazifascista prima e comunista poi. Si incrociano nuovamente in quelle scarpe e all’immagine della giornalista ungherese Petra Laszlo che sgambettava un migrante che aveva in braccio il proprio figlio lungo il confine spinato. Un passato che continua a ritornare in una spirale che non riesce ad avere fine, la cui Memoria non vuole essere ricordata.
Oggi quest’opera, così come le altre della Memoria sparse per varie terre, deve divenire parte di una Memoria più vasta che non riguardi più solamente le persecuzioni subite da un determinato popolo o etnia, bensì l’intero genere umano vessato da soprusi di ogni tipo, e questa terra d’Ungheria credo sia l’esempio più prossimo al ripetersi della storia.
La politica di Orban sta sradicando queste scarpe lanciandole per sempre sul fondo del Danubio.
Ellie e Ale, i miei figli, sono con me. La prima tiene la mia mano, il secondo è seduto sulle mie spalle. Anche loro guardano le scarpe che vanno verso le acque del fiume. Osservano i fiori, le candele, le scarpe di qualche bambino. Anche loro sono in silenzio, in un modo particolare fatto di sguardi e di piccoli sussurri. Il silenzio dei bimbi fatto di gesti e di occhi che puntano quegli oggetti e questo luogo. Sono colpiti. Lo percepisci. Per un attimo ho l’immagine che proprio quella scarpetta calzi al piede di Ellie. L’altra poco distante potrebbe essere indossata da Ale.
Avverto il peso del metallo schiacciarmi il petto. Gli attimi vanno via svanendo in strani meandri dell’anima rimanendo, però, conficcati come se ora facessero parte di te. Torniamo sui nostri passi. Mi viene in mente Antonello che ha mostrato questa storia non solo a me, ma soprattutto a coloro che mi succederanno, a coloro che scriveranno la storia di domani. Penso al sangue che scorre nelle sue vene vessato in ogni dove abbia fluito.
La Memoria deve scorrere come quel sangue, così da restare sempre viva per muovere le azioni degli uomini affinché il male annidato nei palazzi “bianco lucenti” si affievolisca e gli orrori di cui continua ad esserne l’artefice restino infissi in quella stessa Memoria.
Autore Fabio Picolli
Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!