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Le nuove città

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Napoli


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Tutti noi abbiamo ancora negli occhi le immagini di alcune delle più belle strade, vie e piazze della nostra Penisola deserte, spettrali ma, allo stesso tempo, incredibilmente affascinanti e ipnotiche in quel mix di mistero e di abissale incognita.

Sono trascorsi diversi mesi da quando in piena apnea covidiana le città subivano uno svuotamento che le mutava in set di film apocalittici o in teatro per solisti che incorniciavano quel silenzio con assoli struggenti rubando al tempo l’idea della normalità.

Dopo il lockdown le città sono tornate allo stato di prima: caos, sporcizia, abbandono. E così anche la natura: abbiamo riscoperto acque pulite e cieli tersi, meduse in laguna, baie da cartolina, cervi e orsi in fila al municipio per il reddito perché poca spazzatura in cui rovistare; poi, ripresa la vita quotidiana tutto è tornato come prima.

Niente ci ha indignato: di ritrovarsi ad uno stato di inquinamento ex novo su valori elevati, di aver avuto conferma di quanto incida la mano dell’uomo nell’auto-distruzione dell’ambiente, nulla non ha suscitato forti clamori.

L’economia non è sostenibile, in ogni senso. Potevamo intendere il tutto come un banco di prova, ma numeri e fatti alla mano ciò che si evince è che il nostro senso civico e di responsabilità se non è morto, quanto meno è in coma.

In quei giorni l’illusione di un cambiamento radicale, come la rinascita del mondo o la genesi di uno nuovo, sfiorò tutti. È durato il tempo di un “liberi tutti” e l’uomo ha ricordato alla natura quanto sa annullarsi nel suo egoismo e nella sua frenetica rincorsa materialistica.

La natura sa essere bellissima quando l’uomo si fa da parte. Le città hanno ripreso il loro volto stanco e intollerante, gommoso e asfittico. Eppure, dovremmo ripartire da loro o, forse è il caso di dire, dovrebbero ripartire da noi, dalle nostre nuove urgenze e dall’esperienza che stiamo vivendo.

La città moderna è un organismo molto articolato dove si fondano diverse componenti; è un mosaico di quartieri differenti per caratteristiche economiche, sociali e architettoniche.

Oggi la grande città è un centro polifunzionale che ricopre una vasta gamma di funzioni per i suoi abitanti e per ampi territori circostanti. Esistono città caratterizzate da una funzione dominante e città con molteplici funzioni. Esse svolgono un ruolo chiave nella vita di un Paese.

Non solo la maggioranza della popolazione vive nelle città, ma le città svolgono anche un ruolo chiave nello sviluppo sociale ed economico di tutti i territori europei. Il “modello europeo di città” è una questione interessante. Da un lato c’è la storia da tutelare, ossia l’identità da tutelare, dall’altro è necessario pensare al futuro.

Sappiamo da studi di settore che la concentrazione di consumatori, lavoratori e imprese in un luogo o in un’area, insieme alle istituzioni, rendono un agglomerato coeso con le capacità di rendimenti crescenti, con investimenti e rientri di capitale che consentono di far girare, per l’appunto, l’economia.

Ricordiamoci che il 67% del PIL europeo è generato nelle regioni metropolitane, mentre la loro popolazione rappresenta solo il 59% della popolazione europea totale.

Certo che l’agglomerazione provoca anche degli aspetti negativi: come la congestione del traffico, l’aumento dei prezzi e la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, l’inquinamento, l’espansione urbana incontrollata, l’aumento dei costi delle infrastrutture urbane, le tensioni sociali e l’aumento della criminalità.

Alle volte gli aspetti negativi superano ampiamente i benefici. Oltre ai costi economici diretti di una diminuzione dell’efficienza dell’economia, c’è anche il costo aggiuntivo di un ambiente degradato, problemi di salute e una ridotta qualità della vita.

Secondo l’OCSE, la relazione tra reddito e dimensione della popolazione diventa negativa intorno ai 6 – 7 milioni. È evidente che le città sono luoghi di alta concentrazione di problemi, sebbene siano generatrici di crescita, i tassi di disoccupazione più elevati si riscontrano proprio nelle città.

La città è diventata “porosa”, non esistono più confini tra un fenomeno e l’altro, tra un livello di conoscenza e quello successivo. Lo sforzo principale è quello di differenziare, la varietà è diventata un imperativo, come il particolarismo e il piacere che hanno sostituito la funzionalità e l’utilità.

Sono tramontati i tentativi di rifondare la città partendo da criteri universalistici; in essa si leggono invece le diverse intenzioni che rispondono alle domande delle tante nazionalità presenti.

Poi c’è la pandemia che sta pretendendo una rivoluzione.

D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino

Mentre il mondo continua a combattere la rapida diffusione del Coronavirus, confinando molte persone nelle loro case e alterando radicalmente il modo in cui attraversiamo, lavoriamo e pensiamo le nostre città, alcuni si chiedono quale di questi adattamenti durerà oltre la fine della pandemia e come potrebbe essere la vita dopo.

A mio avviso, lo sviluppo e il miglioramento sociale di una città passano attraverso il tentativo di andare incontro alla soddisfazione delle esigenze emergenti e preesistenti dell’agglomerato urbano e attraverso una programmazione delle azioni da mettere in atto sia da parte delle istituzioni che dalla società civile.

Il Covid ci ha fatto capire che è giunto il momento di un cambiamento decisivo che dovrà avere però un volto umano e comunitario, affinché la città possa avere ancora un futuro.

Ciò significa che bisognerà mettere al centro le persone e le relazioni che si instaurano fra di esse: quando si smarrisce la centralità degli uomini che la abitano, la città perde la sua anima e nulla funziona più come dovrebbe.

Per far accadere ciò, occorrerebbe una stretta collaborazione fra Stato, Regioni ed Enti locali e una riformulazione di un piano adeguato in cui si pensi necessariamente al benessere dell’intera comunità, invece che agli interessi del singolo.

Bisognerebbe ripensare alla struttura dei centri abitati, arrestando innanzitutto la cementificazione dei suoli agricoli mediante azioni di riciclo o l’abbattimento di edifici abbandonati o di nessun pregio per favorire maggior contatto con la natura; contrastare il diffondersi dei ghetti urbani che provocano disuguaglianza ed esclusione; privilegiare la diversità urbana, preservando i centri storici che sono la memoria del nostro Paese e migliorare i servizi offerti per contrastare nuovi virus, dando nuova linfa ad ospedali, carceri e centri per anziani.

Questo significherebbe agire in nome del bene comune. Dobbiamo pensare a nuove città per fronteggiare ogni emergenza che verrà, partendo dalle urgenze storiche e dalle ultime esperienze.

Abbiamo dal post Covid un vantaggio: quello di cambiare, o quanto meno ragionarci sopra, il corpus degli ambienti in cui viviamo, facendo, ovviamente, i conti con le derive di questo periodo.

La crisi ha investito diversi settori con negozi che chiudono i battenti ed imprese in piena crisi; così come con il lavoro agile non abbiamo più l’identificazione dell’azienda in quella zona; ma, se è vero che lo smart-working sta comportando che alcune zone di lavoro e l’indotto che ne derivava stanno smarrendo la loro identità, provocando cadute nel guadagno, non possiamo non considerare anche le opportunità che si stanno conquistando e che potrebbero diventare a breve un forte assist per il rilancio della stessa città.

Una principalmente è quella di individuare un modello di organizzazione del lavoro che si basa sulla maggiore autonomia del lavoratore sposando lo smart-working con lo smart-city, ottimizzando gli spazi e le utilità, magari creando nuove situazioni di spazio collettivo che non prevedano per forza la concentrazione delle persone, tipo spazi pubblici non focalizzati, imparando a riordinare quelle dinamiche di crescita e di mutamento che seguono generalmente più logiche, che possono essere legate al commercio, alle linee di trasporto urbano ed extraurbano, alle attività finanziarie e del terziario in genere, modellando quei cosiddetti corridoi ecologici che possono essere il polmone del quartiere.

Senza omettere il fattore istituzioni: esse operano sul territorio della distribuzione dei servizi, della qualità dei servizi in relazione alle esigenze avanzate dai cittadini, da una parte; dall’altra devono mettere in dialogo le richieste dei cittadini in base alle realtà emergenti sul territorio, alla praticabilità della partecipazione attiva, assumendo la forma di co-costruzione della qualità abitativa e culturale in collaborazione con gli enti amministrativi preposti e le decisioni della classe politica.

Le città nuove meriterebbero già di esistere in un rinnovarsi continuo nella completa risposta delle esigenze dei suoi abitanti ma, ancora e da tanto, come per tutte le urgenze impellenti, stiamo annichilendo il tempo dibattendo in un confronto sterile che ci porterà a vivere l’oggi in città nostalgiche e grigie, dove la paura e la rabbia hanno più ospitalità.

È bella di notte la città.
C’è pericolo ma pure libertà. Ci girano quelli senza sonno, gli artisti, gli assassini, i giocatori, stanno aperte le osterie, le friggitorie, i caffè. Ci si saluta, ci si conosce, tra quelli che campano di notte. Le persone perdonano i vizi.
La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione. Escono i trasformati, uomini vestiti da donna, perché così gli dice la natura e nessuno li scoccia. Nessuno chiede di conto di notte. Escono gli storpi, i ciechi, gli zoppi, che di giorno vengono respinti. È una tasca rivoltata, la notte nella città. Escono pure i cani, quelli senza casa. Aspettano la notte per cercare gli avanzi, quanti cani riescono a campare senza nessuno. Di notte la città è un paese civile.
Erri De Luca

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.