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Le due malinconie

Malinconie


Da Leopardi un grande monito

La malinconia non è di per se stessa uno stato negativo della mente, a meno che non la si trascuri e non la si lasci scorrere tra le pieghe della solitudine, dell’isolamento prolungato per sfuggire al mondo.

Giacomo Leopardi conosceva a fondo, per esperienza personale, la differenza tra le due malinconie e lo spiegò molto bene nella lettera che scrisse a Pietro Giordani nell’aprile del 1817:

So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito.

Ora come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come far che cessi l’effetto se dura la causa?

Lo scrittore di Recanati ci parla di una malinconia come frutto di profonde riflessioni, le quali si trasformano in pensieri creativi, perfino più dolci dell’allegria, quando quest’ultima è dettata dalla frivolezza, ma poi ci avverte di come quella stessa malinconia possa essere vissuta in modo del tutto diverso, annichilendo ogni risorsa dentro di noi.

Ed è difficile uscirne poiché, pur provando a distrarre i pensieri, modificando l’effetto, la causa rimane, e proprio non ne vuol sapere di andarsene.

Sicuramente studiare, per Leopardi, era una medicina ma, al tempo stesso, una malattia, giacché l’amore per i libri lo portava a vivere rinchiuso su se stesso, un po’ come oggi accade per tutti coloro che si isolano con il proprio computer o gli smartphone:

A tutto questo aggiunga l’ostinata, nera, orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce.

Leggendo e studiando, la sua malinconia diventava orribile, coercitiva, oscura, ma senza l’aiuto dei libri cresceva ancor di più, creando un circolo vizioso.

Pietro Giordani lo invitava anche ad uscire, a girar l’Italia, così come oggi credo che suggerirebbe a tutti di non isolarsi nella ragnatela degli schermi, dei telefonini, con il rischio di ammalarsi sia nel fisico che mentalmente.

Immobili, di fronte ad un televisore, a guardar qualcosa di cui poi non si parlerà con nessuno, è come studiare solo per se stessi, senza condivisione, senza un proficuo dialogo, e la pandemia non può essere una scusa per non incontrar nessuno dal momento che basta un cellulare per incontrarsi tutti.

Non è la stessa cosa?

Perché mai non ragioniamo in questo modo quando abbiamo le teste chine sui telefonini?

Quando siamo a testa in giù, soli con noi stessi, con le vertebre cervicali che si incurvano, non ci ripetiamo che non è la stessa cosa, non ci rifiutiamo di stazionare come vecchi pali della luce, ricurvi e immobili, privi di elettricità propria.

Occorre sempre una via salvifica di mezzo che ci riporti in equilibrio.

Per dirla con il Bhagavad Gita indiano “né troppo, né troppo poco” e con Aristotele: “secondo giusta misura”.

Una regola che vale per tutte le cose poiché, si sa, se mangi troppo ti ammali e così anche se mangi troppo poco, e la stessa cosa vale per il sonno, per il divertimento, lo studio e il lavoro.

Che facciamo allora?

Studiamo da soli ma anche insieme ed incontriamoci, in un modo o nell’altro, che in solitudine, troppo a lungo, è un rischio leopardiano di malinconica follia.

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Autore natyan

natyan, presidente dell’Università Popolare Olistica di Monza denominata Studio Gayatri, un’associazione culturale no-profit operativa dal 1995. Appassionato di Filosofie Orientali, fin dal 1984, ha acquisito alla fonte, in India, in Thailandia e in Myanmar, con più di trenta viaggi, le sue conoscenze relative ai percorsi interiori teorici e pratici. Consulente Filosofico e Insegnante delle più svariate discipline meditative d’oriente, con adattamento alla cultura comunicativa occidentale.

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