Dopo aver visto un film come ‘Le chiavi di casa’ ti passano per la testa migliaia di pensieri che vengono sovrastati solo dall’emozione di aver assistito ad un qualcosa che è molto di più del cinema: ciò che della vita reale noi ignoriamo, non riusciamo a vedere.
La storia è quella di un giovane padre che per la prima volta, dopo quindici anni, incontra il figlio; quando Paolo è stato partorito, la mamma, che aveva diciannove anni, è morta per gravi complicazioni e lui è riuscito a venire alla luce solo per mezzo della presa del forcipe anche se, come dicono i medici, “ha qualche problema”.
Gianni, il giovane padre, non ha mai voluto vederlo, forse imputandogli la colpa di quel decesso improvviso della donna e quindi Paolo è cresciuto con i parenti materni.
L’approccio tra i due è difficile; all’improvviso Gianni si ritrova addosso l’angoscia, lo spavento, l’ingombro della presenza di questo ragazzino disabile da accompagnare in un ospedale di Berlino per cure e controlli che periodicamente devono essere ripetuti.
La disinvoltura inaspettata del figlio ritrovato se da un lato lo mette a proprio agio, dall’altro lo porta a confrontarsi con tutte le sofferenze che può solo immaginare lui abbia provato in quindici anni di vita, quindici anni in cui non gli è stato vicino.
A Berlino il rapporto tra i due s’intensifica e l’amore che Gianni comincia a provare per quella creatura cresce all’interno dell’ospedale; è qui che incontra Nicole, una straordinaria madre coraggio che da vent’anni vive esclusivamente per la figlia disabile e che, parlando con il giovane padre, gli racconta tanto di quelle persone così uniche, della loro voglia di far parte di un mondo che sistematicamente li emargina, di un universo che è pronto a commuoversi davanti alle difficoltà fisiche, ma che non impara a tollerare quelle mentali, caratteriali, sociali.
Nicole si meraviglia di vedere un uomo in quel nosocomio e dice
I padri non ce la fanno. Sono le madri a fare il lavoro sporco, a non mollare, a prendersi tutta la disperazione!
Una disperazione che non riesce a trattenere quando, rivolgendosi a Gianni, gli confessa che ci sono momenti in cui guardando sua figlia Nadine negli occhi pensa
Perché non muore?
L’incontro con la coscienza di quella donna, per Gianni è sconvolgente quasi quanto lo è stata la conoscenza di suo figlio Paolo; quel ragazzino sconosciuto e misterioso che per mezzo della sua immensa passione si sforza di scrivere, che conserva la foto di una bambina mai incontrata, che recita come una poesia la formazione della Lazio, squadra di cui è tifoso, che parla con l’accento romanesco, che canta le canzoni di Vasco – dopo aver assistito al film ogni volta che capiterà di ascoltare ‘Quanti anni hai’ verrà in mente automaticamente Paolo che la canta in macchina -, che vede le diversità che lo circondano senza dare eccessivo peso alle proprie, che non si lamenta mai, che non sa cosa sia il rancore, sconvolge a tal punto la vita del padre da fargli prendere la decisione di portarlo con sé per vivere finalmente insieme.
Se questo incontro era arrivato per il senso di colpa che il giovane papà provava per i quindici anni di assenza, la scelta di prenderlo con sé è conseguenza di quella assoluta necessità che ora sente di non perdere neanche più un minuto della vita del figlio.
Ma nulla è facile in certe esistenze, nemmeno le convinzioni che un attimo prima ti paiono indissolubili resistono ai viaggi nel buio che, inevitabilmente, arrivano nella quotidianità di persone così speciali, alla fine, comunque, le uniche a dare la forza per affrontare le paure e le incertezze di un futuro da vivere al loro fianco.
Gianni Amelio, ispirato dal romanzo di Giuseppe Pontiggia ‘Nati due volte’, ha dato vita ad un gran bel film: intenso e toccante, per il tema trattato, per la scelta di farlo recitare da un ragazzo realmente disabile, per le scelte stilistiche e tecniche, perché mette lo spettatore di fronte a realtà che spesso si preferisce non pensare nemmeno che esistano a questo mondo.
Andrea Rossi interpreta Paolo e la forza con cui tiene la scena è impressionante, così come la sua gestualità; la naturalezza dei dialoghi che ha con ciascuno dei personaggi che incontra di volta in volta rende la pellicola un’incursione in un’esistenza che sembra scorrere davanti alla cinepresa e la capacità di dare questa sensazione è uno dei più grossi meriti del film.
Un plauso convinto va alla bella prova di Kim Rossi Stuart: l’attore, alle prese con la sua interpretazione più difficile, in ‘Le chiavi di casa’ unisce l’intensità espressiva alla capacità di dare un carattere al suo personaggio che facilmente sarebbe potuto scomparire alle spalle della forte personalità di Andrea Rossi.
Quasi eterea la figura di Charlotte Rampling; l’attrice, sempre molto affascinante, recita per la prima volta in italiano e interpreta con magistrale disinvoltura una donna alle prese con un dramma con cui convive da oltre vent’anni. La sua recitazione riesce a trasmettere serenità ed inquietudine, sconforto e cinismo, speranza e disperazione senza mai sfociare nel patetico e lo sguardo che ci mostra nel film è quello di tante madri che ogni giorno incontriamo ignorando quello che si portano dentro.
Il regista, parlando de ‘Le chiavi di casa’, ha detto:
Ecco cos’è la fatica di vivere.
Ed è quanto mai importante vedere un film del genere per poter almeno immaginarla questa fatica mettendoci allo specchio a confrontarci con le piccole grandi diversità che ci circondano, rubando un po’ di tempo alle nostre stupidi ed inutili lamentele quotidiane.
Alla fine della visione godetevi i titoli di coda: bellissime immagini dei due protagonisti in giro per Berlino accompagnate dalla vellutata voce di Virginia Rodrigues.
Autore Paco De Renzis
Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.