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Lavorare ci stanca

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L’uomo è arrivato quando fa per mestiere quel che farebbe gratis.
George Bernard Show

Il mondo del lavoro, se prendiamo in considerazione il periodo che va dalla seconda metà del secolo scorso a oggi, ha subito dei cambiamenti radicali, che sono andati di pari passo con quelli altrettanto drastici che si sono avuti nella società.

Vari sono i fattori che hanno contribuito, tra i quali la globalizzazione, l’avvento di sempre nuove tecnologie e l’automazione ad esse connessa, i nuovi metodi di comunicazione, socializzazione e scambio di informazioni.

Globalizzazione, dumping salariale, precariato, gig economy sono le nuove sfide che si trova ad affrontare chi si affaccia al mondo del lavoro. E non solo.

Se guardiano in fondo a certe “stanze” possiamo vedere il nero di questa situazione: mi riferisco ai nuovi assoggettati del lavoro, per esempio.

Quelli che qualcuno definisce come gli schiavi di un dio minore, che vivono tra noi, anche se non li vediamo. Ne rimangono tracce sui giornali: il trafiletto su un bracciante morto di stenti in un campo di raccolta, l’editoriale sui magazzinieri che collassano a fine turno.

Quelli che invece vivono lontani sono ridotti a numeri, statistiche: il tasso di suicidi nelle aziende asiatiche, dove si producono a poco prezzo i nostri nuovi device, la paga oraria delle operaie cinesi o bengalesi, che rendono così economici i nostri vestiti.

D’altra parte, si sa, l’abbattimento dei prezzi, senza intaccare i guadagni, si ottiene sacrificando i diritti e, a volte, la vita dei lavoratori, a Dacca come a Shenzhen o in qualche sperduta località italiana.

Ma non si tratta solo di delocalizzare o impiegare manodopera immigrata. La schiavitù si insinua nelle pieghe della modernità più smagliante: in fondo, non c’è differenza tra i caporali dei braccianti e i braccialetti elettronici, i microchip, le telecamere e le cinture GPS, strumenti pensati per la sicurezza ma votati al controllo.

Per non parlare della mania del feedback, del commento con le stellette, l’ossessione per il custumer care, che mentre coccola il cliente dà un altro giro di vite alla condizione dei lavoratori.

E dove manca il padrone, c’è lo schiavismo autoinflitto dei freelance, che sopravvivono al lordo delle tasse, senza ferie pagate, contributi, tempo libero. Indipendenti, sì, ma incatenati alle date di consegna e al giudizio insindacabile dei committenti, ai loro tempi biblici di pagamento.

Il mondo del lavoro è cambiato ed è stupido non accettarlo o non comprenderlo: le aziende licenziano, decentrano, spostano all’estero la produzione o la fornitura di beni e servizi, abbassano gli stipendi.

Solide e sicure realtà produttive attorno alle quali gira parte dell’economia globale dovranno dare un taglio ai propri dipendenti e spesso ci si trova fuori. Nella trionfante narrazione dell’oggi, tutta sharing economy, start up e “siate affamati, siate folli”, non c’è spazio per questi schiavi moderni.

Sarà anche questo uno dei motivi che hanno scatenato l’ondata delle cosiddette grandi dimissioni? Ci hanno sempre ripetuto che il lavoro è ciò che ci definisce, il fondamento della nostra dignità di esseri umani. E allora perché, in tutto il mondo, sempre più persone si dimettono?

Negli ultimi anni, soprattutto post pandemia, abbiamo avuto diverse occasioni per chiederci se la vita che stiamo vivendo è quella che vogliamo vivere. Per molti la risposta è stata no. Questo perché è cresciuta l’indisponibilità a sottostare a regole tossiche e vessatorie che numerosi contesti lavorativi impongono.

Bisognerebbe analizzare, con una certa urgenza, le ragioni della crescita di una tendenza del tutto inattesa e che mostra come oggi dimettersi significhi non solo impedire alle condizioni di sfruttamento di deteriorare la nostra salute e le nostre relazioni, ma anche riconquistare tempo per noi stessi e per la nostra vita.

Per molti bisogna partire dal ripensare radicalmente il concetto di ‘lavoro’. Capire come lavoriamo, quando lavoriamo, dove lavoriamo. E, soprattutto, perché lavoriamo. Osservare in che modo abbiamo trasformato un potenziale strumento di liberazione nella più sottile e pervicace forma di schiavitù mai apparsa sulla Terra.

Sembra impossibile fare del lavoro, che oggi è una vera e propria tortura di massa, un modo per imparare a decrescere e convivere. Eppure, è l’unica strada per non autodistruggerci in una manciata di anni.

Ormai non è più un segreto che siamo schiavi del lavoro. Il lavoro ci definisce e possiede le nostre vite in un modo che ormai è patologico. Da qualche tempo ci si è resi conto che il malessere su questo tema, da personale sta diventando collettivo.

Il lavoro è superstizione e siamo tutti prigionieri di un incantesimo. Messa così sembra un abisso, un delirio: eppure, in giro sono questi i commenti, sono queste le voci che senti e le vibrazioni che avverti. Sta cambiando il mondo, quello che abbiamo ereditato e che stiamo costruendo.

A dar man forte a questo scenario, c’è l’aggressivo mutamento che stiamo subendo ad opera della digitalizzazione, oramai la nuova normalità. Ricordiamolo che l’informatizzazione è iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso, ma la pandemia ha dato una forte spinta alla rivoluzione digitale. Lo sappiamo benissimo tutti.

All’improvviso ci siamo ritrovati di fronte all’inaspettata urgenza di lavorare a distanza. La prima sfida per le aziende è stata adeguarsi rapidamente, dotandosi di strumenti e software necessari alla produzione e all’organizzazione del lavoro.

Tuttavia, non è stata, e non lo è tuttora, l’unica sfida. È necessario un aggiornamento delle competenze dei lavoratori, affinché sia possibile sostenere il cambiamento. Assistiamo all’emergere di professioni nuove, ed è oramai chiaro come queste presentino dinamiche evolutive continue.

Per poter tenere il passo con un progresso tecnologico inarrestabile, è cruciale per le aziende capire come cambia il mondo del lavoro e agire con lungimiranza in modo proattivo. Tant’è che si parla ormai di digital reskilling. Ovvero, del bisogno di sviluppare modalità di apprendimento continuo per ampliare il bagaglio di competenze dei lavoratori.

Ma non solo, è necessario sostenere l’acquisizione di tutte quelle soft skill che consentano di abbracciare il cambiamento. Tutto questo pesa, perché ha nuove pretese, perché non è lineare ma articolato, perché richiede un’immedesimazione in un processo che cambia repentinamente. Nel mezzo di un cambio generazionale che vede chi è pronto ad ogni trasformazione salire sulle spalle di chi, invece, la subisce e lentamente affoga.

Nello stesso mare non possono nuotare tutti, non c’è spazio per bracciate in libertà. È un gioco di equilibri e di incastro. Di sintonia e di armonia. Negli Stati Uniti è ormai conosciuto come Great resignation, le grandi dimissioni.

Stando alle macroscopiche cifre, si va dai 40 milioni di americani che hanno lasciato il lavoro fra la primavera del 2021 e quella del 2022 in coincidenza con la ripresa economica dopo il Covid, fino ai 3.322.000 italiani, il 36% in più dei dodici mesi precedenti.

In Italia, letti i numeri, possiamo dire che non è della stessa portata ma, di certo, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro si fa sempre più spazio. Continua così ad aumentare il numero di coloro che decidono di lasciare il posto. Per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia.

I motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita. Non c’è solo il lavoro, ci sono la famiglia, la vita privata, lo smart working. Insomma, è come se le coscienze si fossero risvegliate all’unisono.

Poi, va detto che il basso salario è, in Italia come in America, solo uno dei motivi della “grande dimissione”. Come se l’esperienza del tutto inusitata del lockdown, visto che ha dato a tutti più tempo per riflettere, avesse acceso un faro sulle insoddisfazioni, le frustrazioni, i cattivi rapporti con i capi, tutto quello che non andava nel lavoro, e avesse fatto dire: ma sì, corro il rischio di lasciarlo questo posto. La vita è una sola e lavorare stanca. Staremo a vedere nei prossimi anni se ci sarà il fenomeno del “grande rientro”.

Nel frattempo, va letta questa ondata di dimissioni come una nuova chiave di interpretazione esistenziale, al di là degli oggettivi problemi economici e culturali di lavoro che ogni Paese ha nella sua trama sociale.

Non prendiamolo come un rigurgito acerbo o una reazione d’istinto un poco bohémien di una generazione stordita dagli anni pandemici. Non c’è stata nessuna abluzione spirituale o risveglio delle coscienze, ma una seria riflessione su cosa sono io, cosa voglio io e dove voglio e posso andare. Un giorno capiremo se abbiamo risposto bene a queste domande.

Ho dato le dimissioni, ma le ho rifiutate.
Winston Churchill 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.