Mi dà fastidio stare con gente che dice di attendere la vita nuova con la stessa noia con cui si attende il tram.
Ignazio Silone
È finito il vecchio ed è cominciato un nuovo anno. Subito viene il tempo di aspettative, di progetti e di pianificazione per nuovi obiettivi, molto spesso tutto viene interrotto strada facendo, ancor più spesso nemmeno si tenta di affrontare i propositi durevoli una notte. Eppure, aspettare, attendere possono sublimare il nostro tempo.
Quanto è lungo il tempo delle nostre vite impiegato ad aspettare? Un amore, una telefonata, una nascita, ma anche l’esito di un esame, l’accettazione di un’offerta, un treno.
Gran parte della nostra esistenza è una lunga attesa di qualcosa che è alle porte, ma che potrebbe anche non arrivare mai. Siamo in bilico tra certezza e dubbio, speranza e malinconia in attesa che avvenga qualcosa.
Oggi, però, stiamo dimenticando che l’attesa non deve essere per forza di cose una costrizione, ma può rappresentare anche uno spazio consapevolmente cercato, un lasso di tempo preparatorio, che contribuisce ad alimentare il nostro desiderio nei confronti di un evento futuro.
Mettersi ad aspettare qualcosa significa infatti assumere una posizione per certi aspetti scomoda, che ci fa sentire addosso il logorio del tempo, ma che, proprio per questo, può fungere da termometro emotivo, consentendoci di distinguere i momenti che non ci preme raggiungere, da quelli che, invece, non vediamo l’ora di vivere e che quindi attendiamo con maggior coinvolgimento, perché probabilmente avranno un particolare peso nelle nostre vite.
Sono queste le circostanze, descritte nei secoli da tanta letteratura e filosofia, che rendono l’attesa un atto di cura, un tempo da dedicare a determinati avvenimenti, incontri o legami che consideriamo significativi, per coltivare i forti sentimenti che suscitano in noi, proprio come se stessimo facendo una promessa, prendendoci un impegno nei loro confronti.
Il contesto socioeconomico in cui ci muoviamo, però, fa di tutto per convincerci che alle promesse non servano tempi d’attesa e che esse possano fondarsi anche sulla soddisfazione immediata, sulla fretta, o sul riempimento ossessivo del tempo.
Nonostante quest’idea sia priva di basi, è rifacendosi ad essa che il sistema continua ad assegnarci nuovi desideri da realizzare, ovviamente nel minor tempo possibile, costringendoci, così, a cedere prima le ore libere, poi quelle del riposo e, più in generale, tutte quelle improduttive, come se questo potesse accorciare le distanze tra noi e le nostre aspirazioni.
Partendo con l’eliminare tutte le attività che implicano di per sé una qualche forma di rallentamento questo processo è poi arrivato ad estremizzarsi, negando anche l’attesa come fatto biologico.
Per non rischiare di arrivare in ritardo sui suoi obiettivi la versione steroidea del superuomo che abita la società capitalista si convince, infatti, di poter smantellare la sua stessa identità biologica, sbarazzandosi anche delle pause legate a dei limiti fisiologici, come quelle che ci servono per dormire, con conseguenze deleterie sulla nostra salute.
L’accelerazione spasmodica dei nostri ritmi e l’allontanamento da una temporalità a misura umana, con il suo andamento tutt’altro che lineare, non hanno fatto altro che rendere il tempo la risorsa scarsa per antonomasia del nostro presente, aggravando la nostra paura di sprecarlo, o di percepire addosso il suo scorrere.
Possiamo dire che l’uomo oggi odia stare da solo, cerca di colmare ogni possibile vuoto lo possa mettere di fronte a se stesso, o meglio, di fronte all’assenza di sé. Una ricorrenza che si traduce, paradossalmente, in una duplicazione della propria solitudine, che viene moltiplicata in quanto dissimulata, insorge mentre la si sta soffocando, esplode mentre si cerca di tapparla.
Si accresce, così, un’insofferenza verso ogni tipo di azione priva di progetto, di suono, la massima sospensione nel quale riusciamo a immergerci è il tanto hashtaggato relax, che ha poco a che fare con la solitudine. È in questo contesto che il momento dell’attesa viene completamente sottovalutato e accantonato.
L’attesa diviene un ostacolo, una linea che mi separa da ciò che voglio immediatamente, qui ed ora. Viene spacciata come passività e, soprattutto, viene dimenticata appena muore. È una condizione perenne di aspettative e speranze che, secondo l’autrice, portano in se stesse un valore intrinseco, al di là della loro realizzazione.
Non è poi così diverso da quello che scriveva Leopardi ne ‘Il sabato del villaggio’, quando descriveva il giorno prima della festa come momento di massima felicità, più importante della festa stessa.
Prima dell’invenzione del telefono portatile, l’attesa di una chiamata era l’immagine simbolo dell’amore, quasi sempre dell’amore non corrisposto. Sin dagli esordi della telecomunicazione, la letteratura ha fatto suo questo motivo.
L’attesa costituisce, infatti, l’immaginario dell’amore, e il desiderio è l’essenza dell’immaginazione. Neanche il cellulare ci ha liberati dall’impotenza dell’attesa. Certo, chi aspetta una telefonata non è più costretto a girare intorno all’apparecchio inscenando insensati rituali di scongiuro.
Tuttavia, chi cerca trepidante di sentire il segnale che non arriva dalla tasca somiglia comunque ad un cavallo da circo cui viene imposto di girare in tondo. È soggetto a quell’incantesimo che, nell’omonima parabola, Kafka definiva «il silenzio delle sirene».
Perché le sirene, che con il loro canto seducente mandavano in rovina i primi viaggiatori in Paesi lontani
possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio.
Ora, quando aspettiamo una chiamata, condizione che oscilla fra passività ed azione, siamo in qualche modo nelle mani dell’altro. Si può fare qualcosa per mitigare la tensione, per frapporre al silenzio fluttuanti ponti di parole. Se nessuno ti parla, cominci a parlare con te stesso.
La verità è che non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in ‘tempo reale’, come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è: ‘simultaneo’. Scrivo una e-mail e attendo la risposta immediata. Se non arriva m’infastidisco: perché non risponde?
Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito. Le buste andavano e arrivavano a ritmi lenti. Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp. Botta e risposta.
Eppure, tutto intorno a noi sembra segnato dall’attesa: la gestazione, l’adolescenza, l’età adulta. C’è un tempo per ogni cosa, e non è mai un tempo immediato. Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti, agli sportelli, sia quelli reali che virtuali. Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo.
L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente? Anche se chi organizza lo spazio dell’attesa – medico, avvocato, centro clinico – possiede i mezzi economici per renderlo piacevole, risulta comunque qualcosa d’irrisolto, d’interstiziale. La verità è che noi non sopportiamo queste zone intermedie, gli spazi e i tempi in cui siamo costretti a esercitare la pazienza.
Aspettare è vissuto come un’imposizione. I potenti fanno sempre attendere, dilatano il tempo d’attesa e mettono a dura prova. Perché è così insopportabile?
Perché siamo diventati intolleranti, perché non sappiamo guardare al tempo futuro, perché non sappiamo differire. La verità è che l’attesa ha a che fare con l’unica cosa che ci spaventa davvero: la nostra morte. Nell’attesa si sperimenta il tempo vuoto, che è l’immagine di un tempo futuro, quello vuoto di noi. Senza di noi.
Il tempo dell’attesa è il più difficile di tutti.
Sarah Doudney
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.