Titolo: L’Arminuta
Autore: Donatella Di Pietrantonio
Editore: Einaudi
Collana: SuperCoralli
Prezzo: € 17,50
Donatella Di Pietrantonio vive a Penne, in Abruzzo, dove esercita la professione di dentista pediatrico.
Ha esordito con il romanzo ‘Mia madre è un fiume’, Elliot 2011, Premio Tropea. Con ‘Bella mia’, Elliot 2014, ha partecipato al Premio Strega. Per Einaudi ha pubblicato ‘L’Arminuta’, 2017.
‘L’Arminuta’ è il libro vincitore di un meritatissimo premio Campiello 2017.
Una storia scarna, essenziale, che colpisce nel profondo. Pagina dopo pagina scava e ti entra dentro. Indimenticabile.
L’Abruzzo negli anni ’70, con la sua doppia faccia: città e paese, mare e campagna.
Una città di mare, ridente con gli ombrelloni, i bagnanti, le case con giardino, la scuola di nuoto, di danza, le amiche, una vita normale e protetta di una qualsiasi ragazzina.
E il paese di campagna, povero, anaffettivo, dove la lotta per la sopravvivenza toglie spazio all’amore, dove il pane sul desco giornaliero non è sufficiente per tutti, il lavoro è incerto ed i figli sono tanti.
Queste sono le due vite dell’Arminuta, “la ritornata” in dialetto abruzzese. Secondo un’usanza arcaica, infatti, una famiglia numerosa, senza alcun atto di adozione o documenti ufficiali, “passava” un neonato a consanguinei che non potevano avere figli.
Quando la protagonista diventa tredicenne, però, viene “restituita” dalla famiglia che l’ha allevata a quella d’origine. Scopriremo solo alla fine del libro il perché, ma preferisco non svelare il motivo, piuttosto soffermarmi sui sentimenti che animano la protagonista, che sono poi, secondo me, il vero scopo del libro.
La giovane è un’estranea nella sua stessa famiglia, ha due mamme, ma in effetti è senza una figura materna. La donna che l’ha cresciuta l’ha rifiutata senza spiegazioni, la madre naturale non ha nulla in comune con lei, non parlano nemmeno la stessa lingua e per questo non si capiscono. Si trova a vivere in una casa affollata, in promiscuità; in una stessa stanza dormono figli maschi e femmine.
L’unica persona che le fa sentire il senso di famiglia è la sorellina Adriana che, da subito, a suo modo, la protegge e la ama. Nasce e si consolida così una forte sorellanza e Adriana sarà per tutta la vita la sua unica famiglia.
Eppure in certe ore tristi mi sentivo dimenticata. Cadevo dai suoi pensieri. Non c’era più ragione di esistere al mondo. Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.
È una narrazione in prima persona, l’Arminuta è volutamente senza nome, chi non ha madre non può avere un’identità, non a quell’età. La ragazzina, abbandonata due volte, si chiede ininterrottamente “cosa ho fatto di male?”, continua a sperare che Adalgisa, la donna che l’ha cresciuta prima o poi torni a riprendersela. La triste verità si scopre solo verso la fine del libro, la crudeltà del mondo degli adulti, che una figlia non può e non deve né capire né accettare.
Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre.
Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
È un vuoto persistente, che conosco ma non supero.
Gira la testa a guardarci dentro.
Un paesaggio desolato che di notte poco lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.
Un romanzo sulla responsabilità della maternità, sulle scelte degli adulti che non devono mai ricadere sui bambini. L’unico punto di contatto vero con l’amore, l’Arminuta lo trova nella sorellina minore Adriana, di cui si sente quasi responsabile essendo una privilegiata in una famiglia dove la miseria si tocca con mano. Non si tratta di povertà economica, ma di miseria dell’anima.
Il privilegio della protagonista è dovuto ai suoi meriti scolastici che spingono la madre adottiva a pagarle gli studi in città, sistemandola a pensione in una famiglia del luogo.
Qui la ragazza cerca il modo di rendere partecipe nella sua vita anche la piccola Adriana, non riuscendo più a godere delle piccole cose, pensando alla povertà della sorellina.
In un mondo di adulti egoisti e scellerati, due ragazzine riescono a fare famiglia in una sorta di sorellanza che le unisce e le fortifica.
La trama
«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza».
– Ma la tua mamma qual è? – mi ha domandato scoraggiata.
– Ne ho due. Una è tua madre.
Ci sono romanzi che toccano corde così profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L’Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell’altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia così questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all’altro perde tutto – una casa confortevole, le amiche più care, l’affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori.
Per «l’Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c’è Adriana, che condivide il letto con lei. E c’è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. L’accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte a se stessi.
Donatella Di Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto alla sua terra, a quell’Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che improvvisamente si accende col riflesso del mare.