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‘L’Antispocchia’: intervista esclusiva a Fulvio Scaparro



Come difendersi dagli arroganti: il noto psicoterapeuta ce lo spiega con un linguaggio immediato e privo di tecnicismi

Fulvio Scaparro, scrittore, giornalista e psicoterapeuta, ci racconta del suo ultimo libro L’Antispocchia – Come ho imparato a difendermi dagli arroganti edito da Bompiani nel maggio 2015, volume intenso, piacevole, divertente in cui l’autore, già titolare della cattedra di psicopedagogia e psicologia dell’Università degli Studi di Milano, descrive l’assurdo quotidiano con grande intelligenza, profondità e, soprattutto, utilizza l’ironia come forma di autodifesa.

L’ironia ci aiuta a tenere aperti sul mondo non tanto la bocca ma gli occhi, il cuore e la mente…

Stando un po’ più in pace con noi stessi, riusciremo forse a convincere anche il prossimo a lasciarci in pace.

Il testo stimola molto la riflessione, ma strappa anche sonore risate; la sua particolarità sta nel fatto che il linguaggio utilizzato è immediato e diretto; con esempi concreti, coinvolge totalmente il lettore in episodi in cui è facile identificarsi, raccontandoli, però, in modo simpatico e spassoso e non certo in ‘psicologese’. Non un manuale di psicologia autoreferenziale, quindi, piuttosto un libro che fa della psicologia prendendo spunto dalla realtà e dai suoi controsensi.

Tante le vicende riportate che ruotano intorno alla spocchia di cui siamo eternamente circondati, quella dei troppi furbetti, cafoni, ruffiani con cui abbiamo a che fare e che spesso ci rovinano la giornata provocandoci non pochi malesseri; quando poi l’intolleranza e le lungaggini burocratiche si combinano tra loro, raggiungiamo il colmo.

Scaparro suggerisce di non mettere sullo stesso piano il futile e il necessario, di ridimensionare, di svelare il ridicolo presente in tanti fatti e fattarelli della nostra vita, perché “se prendiamo tutto sul serio, non arriviamo a sera”.

Durante la nostra piacevolissima chiacchierata ci interrompiamo spesso per ridere, in perfetta sintonia, a volte anche in modo amaro, sulle tante incongruenze dell’esistenza e sul ‘rimedio’ indicato dal letterato.

‘L’Antispocchia’ è un libro a cui tengo molto: pur non essendo un saggio di psicologia, uso volutamente un linguaggio non tecnico e settoriale, ma parlo comunque di psicologia al lettore. È diretto alla persona di media cultura che, se possibile, vive insieme al protagonista le sue vicende. L’insegnamento c’è. Per affrontare seriamente la vita non bisogna farsi coinvolgere più di tanto, non bisogna entrare nella trappola della burocrazia, del ‘ballismo’, dell’esibizionismo. Occorre invece preservare la propria identità, occupandosi di ciò che è davvero importante.

Ma l’identità si preserva anche imparando a resistere e a contrastare chi manipolando l’informazione e riempiendoci di messaggi di ogni sorta ci impedisce di pensare con la nostra testa e, come il Pifferaio Magico, ci conduce lontano da noi stessi.

Nel capitolo intitolato ‘Il ritocchino’ si parla di un’informazione sempre più gridata. Il ruolo del giornalista si è modificato, da colui che doveva fare pura cronaca, raccontando i fatti così com’erano, a chi invece vuole imporre la propria versione dei fatti. Il virus della spocchia, insomma, ha colpito anche la stampa.

Il riferimento al titolista, quella ‘eminenza occulta che sceglie i titoli’, ‘ammesso che esista e non sia una figura dello spirito’, determina anche l’attenzione del lettore nella scelta o meno di un articolo. Si può fare forse qualcosa contro la spocchia di questo genere, chiediamo.

In questo caso è una spocchia che riguarda moltissimi giornali e riviste. L’idea del titolo che vada a ‘condire’ l’articolo, che ne sia lo strillo, altrimenti la gente non lo legge, è veramente molto diffusa.

È, in pratica, una sorta di arroganza, l’ignaro lettore decide, in base al titolo, se valga la pena di leggere il testo o rivolgere la sua attenzione altrove.

Il redattore, invece, sa bene che se vuole richiamare l’attenzione occorre che il titolo sia chiaro, sorprendente, intrigante. Contro questo tipo di spocchia direi si può fare pochissimo, a meno che non ci sia una riflessione dell’intera categoria dei giornalisti. Non dico di fare un’informazione tetra, seriosa e senza alcun guizzo di fantasia, ma occorre far attenzione alla creatività nei titoli in quanto indirizza i lettori e, molte volte, tradisce persino l’articolo.

È una battaglia contro i mulini a vento, me lo diceva Indro Montanelli, uno che direi se ne intendeva! Credo che in linea di massima avesse ragione, ma credo anche che chi legge ‘L’Antispocchia’ sappia che lo sto mettendo in guardia e possa trarne le sue conclusioni.

Intanto i lettori dovrebbero essere più attenti, senza lasciarsi trascinare troppo; questo vale sia per i fruitori della carta stampata che per gli utenti della televisione. Una trasmissione non strillata viene vista da pochissime persone, se invece prometto ‘lacrime e sangue’ mi assicuro milioni di telespettatori.

Un passaggio del libro ci ha ricordato una spassosissima gag nella trasmissione ‘Indietro tutta’ con Troisi, Arbore e Frassica, da cui l’affermazione che è vero solo ciò che la tv ci propina emergeva in modo satirico e surreale; in particolare l’abbiamo collegata al capitolo sul rapporto tra politica e pubblicità, all’ISIDe, l’Istituto di Statistica Immaginaria Demenziale, per cui è degno di fede solo ciò che passa attraverso tv e web.

Anche la politica è molto legata a questo meccanismo. La retorica politica è, in generale, ricca di balle; la sparata è diventata ormai quasi normale. Cosa si può fare? Se non si può cambiare la classe politica, si può almeno informare l’elettore, ognuno con i propri mezzi, affinché possa fare un distinguo tra ciò che viene propinato e la realtà. Possiamo solo fare un’opera di autodifesa.

Ci riallacciamo al godibilissimo passo in cui il professore fa riferimento alla politica, alla teoria dell’’abbacchiato’, il depresso che non ritiene di aver bisogno di cure radicali e all’ex voto che si propone all’elettore. Lo stesso protagonista si definisce un ‘serial loser’, un plurisconfitto che ha assistito impotente al restyling della sua parte politica nella ‘ricerca di una via botanica al socialismo’ con una serie di nuove icone come “garofani, rose, margherite, ortaggi, querce, ulivi...” C’è una possibilità che la sinistra possa uscire da questo ‘autosabotaggio’, domandiamo.

In questo momento non credo sia possibile. Ancora una volta, com’è nella storia della sinistra, ma credo anche della destra, che ci piaccia o no, occorre che arrivi un personaggio trascinante, carismatico, una sorta di guida.

Qualche critico nel recensire il libro, ha fatto riferimento al Marchese del Grillo, a noi, invece, è venuto in mente ‘Siamo uomini o caporali’ di Totò. Quale il pensiero dell’autore in merito, domandiamo.

La presa in giro del mondo di Totò è perfettamente in sintonia con ‘L’Antispocchia’. Totò non prendeva sul serio assolutamente nienteLa sua poesia seria, ‘‘a livella’, spiega proprio il perché sia necessario non farsi trascinare dalla futilità eccessiva. Il mondo in cui viviamo è sempre tragicomico, se Dante fosse vissuto adesso avrebbe scritto, forse, ‘L’umana tragicommedia’. Ma forse è proprio ciò che ha scritto.

Sempre più incuriositi ci preme sapere se la spocchia sia un qualcosa di metastorico o si modifichi nel corso del tempo.

Sicuramente abbiamo esempi di spocchiosi riportati già nella satira della poesia e del teatro greco e latino. Siamo propensi all’esagerazione in tutto, al mangiare e bere troppo, alle doppie e triple morali, al volere tutto e subito e a qualsiasi costo, infischiandocene dei bisogni degli altri. Questo modo di vivere si sta accentuando e diventa sempre più una facciata da mantenere per evitare che gli altri scoprano la nostra debolezza e le nostre paure.

Al di là dell’apparenza chi veramente vale non ha bisogno di sbandierarlo. Purtroppo, però, può anche succedere che una persona di sostanza non venga mai notata. Un po’ come accadeva nell’amatissimo gioco del nascondino che facevamo da bambini; è bello nasconderti fino a che sai che qualcuno ti sta cercando e, infatti, non vedi l’ora ti scoprano. La tragedia è quando non ti scoprono o non vogliono cercarti. La persona che vale non deve ostentarlo, ma rischia comunque di passare tutta una vita senza essere scoperta. In sostanza, questo è ciò che molti non tollerano; danno talmente tanta importanza alla loro vita che non aspettano che qualcuno li individui e si impongono agli altri arrivando già scoperti, in tutti i sensi.

Se penso, ad esempio, a ciò che si intende per sessualità matura ed equilibrata, devo riconoscere che l’arroganza si manifesta anche nell’esibizionismo diffuso.

Ho l’impressione che molta dell’impotenza di cui mi riferiscono gli uomini in terapia dipenda anche dalla sovraesposizione a danno della fantasia. Non ci sono più veli e quindi il gioco finisce, mentre nell’amore c’è anche l’immaginazione, l’avventura, il corteggiamento che rendono tutto più magico. Chi riesce ancora a fare questo si diverte di più.

Nel libro c’è un grande messaggio di speranza, la capacità di sognare e di far fronte alle difficoltà dell’esistenza attraverso la ‘percezione selettiva’. Viene ribadito il concetto che non è sempre un male essere creduloni in quanto occorre raccontarsi delle storie per trovare il modo per andare avanti. Segue un passaggio stupendo sull’’alba dell’umanità’ e sull’’alba della vita di ciascuno di noi’, ‘una sorta di pensiero magico’ utile alla sopravvivenza della specie. Contingenze esterne, però, ci costringono, come fa Pinocchio nel finale della sue avventure, ad abiurare per piegarci alle esigenze di chi ci vuole a sua immagine e somiglianza.

Siamo tanto sprovveduti perché vince chi racconta la balla più grossa, ma ci sono, in realtà, due tipologie di creduloni. Quello ingenuo, il tonto che ci casca, e faccio nel testo l’esempio di Calandrino nel Decameron di Boccaccio, e quello che si racconta delle storie per necessità di salute.

Proviamo a pensare al bimbo piccolo che se non avesse delle storie con cui confrontarsi avrebbe un impatto durissimo con il mondo che non è fatto a sua misura. Lo stesso accade anche da adulti; il depresso grave, il malato, non vede il futuro, non si racconta nessuna storia ed è come se fosse un morto in vita; invece l’anziano vivace che ha intatta la capacità di sognare ha ancora voglia di vivere.

Nel mio caso, come ho scritto nel libro, penso di essere una parte di un ponte che ha diverse arcate, servo in qualche modo a chi verrà dopo di me, che sia figlio o altro, sono sempre io che vivo in una sorta di passaggio del testimone.

Mi piace pensare che la vita non coincida solo con la nostra permanenza fisica sulla terra, altrimenti c’è solo disperazione o il suo opposto, l’assenza di etica, il provare ad arraffare tutto senza alcun rispetto per gli altri.

Molto interessante è anche il riferimento a Tartarino di Tarascona, emblema un po’ di tutti noi, che è sia Don Chisciotte che Sancho Panza, colui che riesce a sognare e si entusiasma, ma che poi torna con i piedi per terra perché predilige la più comoda inazione. Invitiamo il professore a dirci quanto di Tartarino ci sia in lui.

Io stesso sono per certi versi Tartarino, che sogna di essere grande e però è frenato dalla sua parte razionale. Occorre trovare una sana mediazione. Inutile fingere l’avventura stando comodamente a casa o viaggiando in modo troppo organizzato. Ogni viaggio comporta un minimo di rischio, un mettersi in gioco.

In genere, cerchiamo sempre un compromesso e ci elettrizziamo per le avventure degli altri, ammirandole, senza essere effettivamente disposti a farle. Eppure, spesso, ci vantiamo con amici e conoscenti esagerando nell’esposizione delle nostre ‘imprese’ che sono, invece, comunissime; che so, fingendo di parlare di una rischiosa scalata in montagna che era, più semplicemente, una tranquillissima passeggiata.

C’è chi ha bisogno di raccontarsi fandonie, così come c’è chi ha bisogno di ascoltarle, ma in fondo abbiamo bisogno di fare entrambe le cose. In sostanza, abbiamo grandi idee e purtroppo, spesso, accettiamo bassi compromessi.

Nel capitolo ‘Capodanno al Circolo Münchhausen’ si parla anche del buon risolutore di problemi come di colui che sa pensare all’impensabile e c’è un bellissimo passaggio su Babbo Natale, Santa Klaus. Troviamo una frase che ci ha fatto riflettere particolarmente: ‘Come volevasi dimostrare Babbo Natale esiste’, ma il buon vecchione si mostra solo a chi non dorme ed è anche puro di cuore, che rimanda ad una massima buddista per raggiungere l’illuminazione, ma anche alla metafora di Apuleio ne ‘L’Asino d’oro’. ‘Malati’ di teatro come siamo, chiediamo al professore se in qualche modo Babbo Natale possa essere Godot.

Penso proprio di sì; l’attesa di qualcuno o qualcosa che ci spieghi poi il tutto. Posso trascorrere una vita intera cercando di capire perché sono su questa terra, ma la domanda sul perché di tutto rimane sempre. Le grandi religioni parlano di esseri che fanno da ponte tra cielo e terra, di rivelazione o di liberazione dell’uomo da questo mondo. Almeno una volta nella vita anche la persona più semplice o rozza ha questo pensiero che poi, magari, accantona subito.

Di fatto Beckett, nel suo capolavoro, va alla sostanza della vita e il risultato finale è che non si arriva mai ad una risposta, mentre l’attesa continua, così come noi, per certi versi, continuiamo ad aspettare Babbo Natale. Nessuno lo ha mai visto perché è impensabile che si soddisfino contemporaneamente i due requisiti di veglia e purezza di cuore, e, forse, questo vale in generale, per il senso dell’esistenza; se non ci mettiamo in una tale condizione, cosa difficilissima, non riusciamo a staccarci da questa terra.

La ricerca del senso, però, è già un buon modo per vivere: invece di scrollare le spalle disinteressati a tutto, provare ad indagare, anche se il mistero rimane sempre.

Nel capitolo ‘Fantasia esopica per bambini accompagnati’ si sottolinea la necessità di ‘sospendere l’incredulità’ tornando a parlare di lotta di classe. Il racconto, in sé allegorico ed incisivo nel suo essere surreale, vede protagonista un cane, Buccy, che viene ‘intervistato’ nella sua lingua, il TAL.

In particolare, ci colpisce un passaggio in cui il fox terrier afferma che gli sembra di stare su Facebook, uno spazio irreale, cioè, dove intrattiene relazioni fasulle con centinaia di amici e nemici virtuali. Si ravvisa, quindi, la necessità di preservare la propria individualità pur rimanendo aperti agli altri. Chiediamo come ci si riappropri del ‘vero’ contatto umano e, soprattutto, se sia possibile farlo.

Occorre, ogni tanto, rinunciare a stare in mezzo alla folla ed entrare in contatto con se stessi. Se la mia serenità dipende dal fatto di essere sempre in relazione con qualcosa o con qualcuno, perdo la mia identità. Occorre un minimo di rinuncia, di isolamento, il non pensare che la solitudine sia sempre una disgrazia, ma a volte anche una scelta. Se invece continuo a disperdermi nel mondo posso anche avere innumerevoli legami, reali o virtuali, ma non sono più amico di me stesso.

Concludiamo la nostra lunga e proficua telefonata con il professor Scaparro, con un ultimo riferimento al suo essere zavattiniano. Ne ‘L’Antispocchia’ si sottolinea come Cesare Zavattini credesse fermamente nel fare il bene nell’immediato, nella “capacità di lottare per non accettare l’inaccettabile” e nella “benevolenza verso i simili”, mettendo, quindi, a disposizione degli altri, le proprie esperienze.

È stata forse questa la molla che ha spinto lo psicoterapeuta a creare nel 1987 GeA-Genitori Ancòra che, ricordiamo, nel 2011 ha ricevuto il Premio Unicef Italia quale ‘Associazione a favore dei bambini’, domandiamo.

Questo è uno dei motivi conduttori di tutta la mia vita professionale. Ammesso che io abbia un minimo di saggezza dovuta all’esperienza, ritengo che essa, come ho scritto nel libro, non possa essere mai avara, perché sarebbe una contraddizione in termini. Un avaro non è saggio. Bisogna, perciò, mettere a disposizione degli altri ciò che si è imparato. Sono sempre stato molto attento alla condizione infantile, all’abbandono, al maltrattamento, purtroppo diffusissimi ovunque nel mondo, e ho deciso di fare qualcosa di concreto. A volte non riesco, come mediatore familiare, ad appianare le divergenze tra i coniugi e rasserenare gli animi, ma quando accade mi dà grande soddisfazione perché i bambini possono vivere in un ambiente più sereno.

Si tratta di facilitare le relazioni tra genitori in guerra. Potremmo definirlo come una sorta di ‘corridoio umanitario’ in favore dei bambini prima e degli adulti poi, perché se i genitori sono sereni anche i figli stanno bene. Lavorare sugli adulti significa avere una ricaduta positiva sui loro figli.

Far qualcosa per gli altri, però, significa anche e soprattutto fare qualcosa per se stessi. Non sono buono ed altruista, tutt’altro, sto solo curando me stesso.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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