C’è un gesto che non è resistenza, non è fuga, non è violenza. È un taglio
Il Leviatano, mostro onnipresente e informe, si estende come un film senza fine, avvolgendo ogni cosa. Ma da qualche parte, ai margini dello schermo, ci sono le ombre.
Theodore Kaczynski, l’anarca del bosco, ed Ernst Jünger, il teorico del passaggio, si muovono lì, in quello spazio indefinito dove il pensiero e il cinema si toccano senza mai incontrarsi del tutto.
Theodore Kaczynski non è un protagonista. Non cerca di esserlo. È più simile a un’assenza, a quel vuoto che in Tarkovskij diventa zona di sospensione: una negazione operativa che non si accontenta di guardare.
Il suo manifesto, ‘La società industriale e il suo futuro’, è un testo dove ogni frase è un detonatore. La tecnologia non è progresso, ma prigione; non è strumento, ma sistema.
Thomas Edison diceva:
La visione senza esecuzione è solo un’allucinazione.
E Kaczynski sembra incarnare questa massima in modo inquietante: non c’è spazio per i sogni, solo per l’azione.
In questa narrazione frammentata, Kaczynski non assomiglia, forse, a Travis Bickle di ‘Taxi Driver’? Un uomo che si sottrae, che non vuole redimere il mondo ma sfidarlo, distruggerlo, sabotarlo.
Ma Kaczynski non è solo follia: è metodo. Il suo isolamento non è fuga, è strategia. È il bosco di Jünger trasformato in trincea, in base operativa per un attacco personale, silenzioso e spietato.
Se Kaczynski arma la ribellione, Jünger la contempla. Nel ‘Trattato del ribelle’, il passaggio al bosco non è un atto violento, ma un gesto di sottrazione: una ribellione silenziosa che trova la sua forza nel rifiuto di partecipare al gioco del potere. Ma qui il cinema ci viene incontro, suggerendo una tensione che Jünger lascia solo intuire.
In Stalker di Tarkovskij, il bosco diventa zona, diventa domanda: è un luogo di sfida o di resa? E Jünger, con la sua calma quasi ipnotica, si ritrova a dialogare, a distanza, con questa idea. Ma dove il regista russo lascia aperta la porta al mistero, Kaczynski la chiude con l’esplosione: il passaggio al bosco è solo il primo passo verso un’azione irrevocabile.
Le rivoluzioni di massa sono inutili.
Lo dice la storia, lo dice Stirner, lo ripete Kaczynski con la sua voce tagliente.
Il potere non si dissolve; cambia forma, muta volto. È come ‘La Cosa’ di John Carpenter: si insinua, si trasforma, divora.
E qui entra in gioco anche Agamben, con la sua analisi della biopolitica. Il Leviatano moderno non controlla solo le strutture, ma la vita stessa: il respiro, il corpo, il pensiero.
In ‘Gattaca’, ogni gene è schedato, ogni individuo ridotto a un codice. La ribellione, allora, non può che essere individuale: un gesto che non ha spettatori, un atto che non cerca eroi.
Ma c’è un’altra idea che attraversa questo discorso come un miraggio: quella di Hakim Bey e delle ‘Zone Temporaneamente Autonome’, TAZ. Spazi di libertà effimeri, creati ai margini del Leviatano, dove il controllo non arriva.
Qui il cinema torna a suggerire immagini: in ‘Easy Rider’, quella libertà che appartiene forse solo al mondo di certi sognatori, si spezza, si dissolve sotto i colpi della realtà.
Per Kaczynski, però, le TAZ non bastano. Non c’è spazio per il temporaneo, per il fragile. Il suo isolamento è definitivo, il suo rifiuto totale. Dove Bey sognava spazi di tregua, Kaczynski vede solo la necessità di un confronto frontale, senza compromessi.
In tutto questo, cosa rimane?
Ombre, frammenti, domande. Come in un film di Gaspar Noé, dove ogni narrazione è un labirinto e ogni immagine una ferita, il discorso sull’anarca non si chiude, non si risolve.
Il Leviatano non può essere abbattuto: è troppo grande, troppo radicato. Ma può essere sfiorato, sabotato, negato. E in questa negazione, nell’ombra dell’anarca che si muove ai margini, c’è forse l’unica libertà possibile: non una soluzione, ma un taglio. Un’interruzione.
E il cinema, come il pensiero, si perde lì: in quella zona di silenzio che non è resistenza, ma sottrazione. Un gesto che non salva, ma rompe. Che non spiega, ma segna.
Autore Piero Capobianco
Piero Capobianco, redattore per diverse testate sportive e di costume. Si occupa di temi riguardanti la storia di Napoli con particolare riguardo per la lingua e la musica. Ha ideato e conduce per Terroni Tv 'La lingua napoletana' e 'Napolizzando'. Collabora col professor Massimiliano Verde, Presidente di Accademia Napoletana, e il Maestro Lello Traisci musicista ed etno-antropologo. Ha studiato Filosofia presso L'Orientale di Napoli.