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‘La zagara e lo scugnizzo’: intervista a Guido Parisi

'La zagara e lo scugnizzo', di Guido Parisi


Il mistero di Shelley a Napoli

Cosa lega una trovatella napoletana, cieca e poliomielitica del secondo dopoguerra, e uno scugnizzo a due mostri sacri della letteratura mondiale come Percy e Mary Shelley?

Apparentemente nulla, eppure qualcosa c’è.

Per scoprirlo basta recarsi sabato 10 giugno, alle 18:30, allo Spazio 31 della Galleria Principe Umberto di Napoli e Guido Parisi, autore del romanzo ‘La zagara e lo scugnizzo’, Pathos Edizioni, vi svelerà l’arcano.

Abbiamo raggiunto Guido Parisi, che gentilmente ci ha concesso questa intervista.

Perché questo titolo?

La zagara era il fiore preferito di Mary Shelley, che amava tantissimo gli aranceti e il loro profumo. Lo scugnizzo, beh, leggete il libro e saprete il perché.

Mi incuriosisce il sottotitolo, ‘Sulle tracce del mistero di Percy e Mary Shelley‘. Come mai questa scelta?

Sono un insegnante d’inglese, appassionato di letteratura britannica, e mi sono imbattuto in un episodio collegato a questi due geni della letteratura che, fino a pochi decenni fa, era praticamente sconosciuto e riguarda il loro soggiorno napoletano, durato tre mesi, durante il quale sono stati protagonisti di una vicenda su cui ancora non si è fatta pienamente luce.

Riguarda una bambina, Elena Adelaide, che viveva in un brefotrofio e che fu adottata dai coniugi Shelley, anche se la coppia non dichiarò mai l’adozione. La piccola morì prematuramente.

Si è cercato di fare chiarezza su tale mistero, ancora oggi irrisolto, anche perché il protagonista principale, Percy Shelley, perì, prematuramente, pochi anni dopo.

Ci sono solo teorie al riguardo, tra cui anche la tua. Ce ne parli?

Nell’inverno del 1818 Mary Shelley attraversava in un profondo stato di depressione, avendo perso, da poco, entrambi i figli in Italia, Clara a Venezia, per dissenteria, e William a Roma, per malaria.

Sembra che il marito, Percy, colto da un impeto, avesse adottato una bimba, Elena Adelaide. Tuttavia, Mary rifiutò di accogliere in famiglia la trovatella.

Solo depressione per il trapasso dei figli o altro?

Beh, al marito piacevano molto le donne e la moglie era profondamente ferita dai suoi tradimenti.

Comunque, entrambi tornarono in Inghilterra e affidarono la bimba ad una famiglia dei “quartieri”, provvedendo anche al suo mantenimento economico. Elena Adelaide, purtroppo, morì due anni dopo, nel 1820.

Ma Mary, poi, è ritornata in Italia…

Dopo il decesso del marito, Percy, avvenuto nel 1822, quindi due anni dopo quella della piccola, Mary tornò a Napoli e soggiornò anche a Sorrento, perché innamorata di questi luoghi che considerava un giardino archeologico infinito.

La cosa singolare è che non ha mai voluto parlare della bimba. Solo nel 1936, alcuni studiosi di Shelley, scoprirono il certificato di nascita di Elena Adelaide.

Shelley e Napoli, un legame fortissimo, tanto da ambientare ‘Frankenstein’ nella città partenopea.

Bisogna dire che nella prima stesura Mary aveva ambientato il romanzo horror in Svizzera, a Ginevra. Nella seconda stesura, del 1831, invece, a Napoli, una città abitata da angeli e demoni, dalla quale Mary si sentiva terribilmente affascinata.

‘Frankenstein’ può essere stato ispirato dalle leggende metropolitane sul Principe di San Severo?

Certamente Mary Shelley aveva sentito parlare degli studi di Raimondo di Sangro sui cadaveri, inoltre, sia lei che il marito erano fortemente attratti da questa nuova scienza e dalla possibilità di dare vita ai morti.

Ricordo che Frankenstein non è il mostro, ma lo scienziato che riporta in vita questa ‘creatura’, come la chiama l’autrice, poiché non voleva darle un nome, anzi, aveva paura di darglielo.

E sempre Napoli fa da sfondo al tuo romanzo.

‘La zagara e lo scugnizzo’ è inserito una Napoli del secondo dopoguerra, appena dopo la liberazione, nel periodo in cui la città era piena di macerie e la popolazione attraversava un momento difficile.

Ho voluto una trasposizione temporale, poiché è un periodo che sento più vicino rispetto all’Ottocento.

La storia viene raccontata in modalità ‘flashback’, da un oramai attempato signore, Gennaro Sorrentino, ottantenne, che, da bambino, veniva chiamato Frankenstein.

L’appellativo si deve al fatto che, a dieci anni, mentre camminava per strada, si imbatté contro una trave di ferro e lo ‘scontro’ gli procurò un vistoso bernoccolo sulla fronte. Ecco perché i compagni di scuola lo soprannominarono così.

Bullismo, quindi. E Gennaro reagisce… come il protagonista del testo di Shelley?

Sì, ho voluto inserire anche questa tematica, molto diffusa oggi, per indirizzare il libro anche al mondo scolastico.

Un filo di collegamento lega Gennarino al romanzo ‘Frankenstein’, perché, in realtà, Shelley vuole dimostrare che la ‘creatura’ ha un animo buono, ma poi incomincia ad essere esclusa dalla società, ad essere ‘bullizzata’, per usare un termine moderno, e, quindi, la bontà e l’innocenza del ‘mostro’ si tramutano in cattiveria.

Inizia così a vendicarsi, ammazzando tutte le persone vicino al dottor Frankenstein, il suo creatore, fino al tragico epilogo, un po’ come avviene nel romanzo…

Non anticipiamo nulla e lasciamo ai nostri lettori il piacere di leggere il libro. Ma un accenno alla co-protagonista, Lenucia, emarginata dalla nascita, è doveroso.

Ho voluto caratterizzare il personaggio di Lenucia in maniera forte, così che fosse ben visibile al lettore la sua sofferenza.

Una bambina, cieca, poliomielitica, abbandonata appena nata, che si rende perfettamente conto sia della sua menomazione che della sua travolgente spiritualità.

Ha delle visioni e, a volte, parla lingue sconosciute; tuttavia, per non essere ulteriormente derisa e rifiutata dalla collettività, cerca di nascondere queste sue capacità.

La madre adottiva, però, chiederà aiuto al Parroco…

In effetti, Concetta, la madre adottiva, quando si accorge delle abilità della figlia, vuole farla vistare da donna Gina, la ‘chiaroveggente’ del rione.

Nella Napoli del secondo dopoguerra queste donne erano delle vere e proprio istituzioni, capaci, secondo la credenza popolare, di curare anche le malattie.

Fortunatamente, la sua amica, che poi sarebbe la mamma di Gennarino, le consiglia di portarla dal prete, don Raimondo.

E su tutti spiccano Napoli e la tematica della morte.

La vera protagonista del libro è proprio Napoli, con la sua unicità e le sue contraddizioni, dove si vive un culto particolare della morte e delle ‘anime pezzentelle’, anime anonime o abbandonate. C’è la tradizione di portarsi i teschi a casa e di metterli nelle teche, curarli e di chiedere loro in cambio dei favori.

Nel capoluogo campano, il confine tra la vita e la morte è invisibile.

E poi lei, la lingua napoletana…

Ho tenuto la prima presentazione del libro al Circolo dei lettori a Torino, nello scorso mese di marzo; la platea era tutta settentrionale e mi ha pregato, alla fine, di leggere una pagina in napoletano. Erano entusiasti.

Ho voluto dimostrare che quando il napoletano, lingua e non dialetto, è pronunciato bene il diventa ‘un’orchestra in bocca’.

Hai insegnato la lingua napoletana all’estero; ci racconti qualche aneddoto?

Ho insegnato letteratura inglese all’estero per tanti anni, in America, nelle Repubbliche baltiche, in Polonia, in Scandinavia. Ovunque sono andato i miei studenti mi hanno chiesto della lingua napoletana. Credono che le canzoni classiche napoletane come ”O Sole mio’ o ‘Torna a Surriento’ siano scritte e cantate in lingua italiana.

Ho tenuto anche un corso di Napoletano in Finlandia. È durato sei mesi, ed è stata la perla della mia carriera scolastica. Per i primi cinque minuti della lezione scrivevo un proverbio napoletano alla lavagna, tipo ‘Ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja’, poi lo pronunciavo e lo facevo ripetere due o tre volte agli alunni, che venivano immediatamente sedotti da questa lingua e dai suoi fonemi indistinti, che la rendono musicale.

Ringraziamo Guido Parisi per la sua disponibilità e chiudiamo con una celeberrima frase di Mary Shelley:

Stringiamoci più stretti a ciò che ci rimane e spostiamo il nostro amore per coloro che abbiamo perduto, su quelli che sono ancora vivi.

Autore Mimmo Bafurno

Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. Ha pubblicato il volume "Datemi la Parola, Sono un Terrone". Attualmente collabora con terronitv.

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