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La sopravvivenza

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Sopravvivenza


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L’effetto della pandemia non è finito. Non è il caso di illuderci, questo oramai ci pare ovvio. Non abbiamo la possibilità di rilassarci nonostante il vaccino: i dati lo confermano e ci fanno capire che, al di là delle rispettive e rispettabili opinioni, non abbiamo margini di distensione.

Lo spettro di nuovi lockdown è sempre più presente all’orizzonte soprattutto se persisterà l’incognita consolidata del no-vax.

C’è una dimensione volontaristica: i cambiamenti necessari non sono radicati in alcuna necessità storica, ma sono registrati contro la tendenza spontanea della storia.

Disse Walter Benjamin:

Dobbiamo tirare il freno d’emergenza del treno della storia.

Come se dietro a questo concetto ci fossero tutto l’orrore e l’insicurezza degli eventi. E la paura rende più familiare ogni contraddizione, così anche il sapore di una pseudo libertà con i suoi derivati e con i suoi fanatismi irrisolti.

Stiamo incontrando nuove limitazioni e nuovi modelli di controllo, nonostante la disperata ricerca di sopravvivere alla frustrazione di una partecipazione collettiva al dramma.

Come una filosofia del tragico che si inscrive nel culto di questa complessità simbolica e non-dualistica. Ricordiamo che in greco, infatti, il termine tragedia rimanda ad un rituale sacro, fatto di canti e balli sfrenati, che accompagnano il pianto di un capro sacrificale.

Il tragico, dunque, è, prima di tutto, un’opera di contemplazione e di partecipazione al dolore, quello di un altro essere che riflette, ricorda, evoca e rappresenta sempre anche l’altrui dolore.

In questi casi si celebra la vita senza negarne gli aspetti più oscuri e traumatici, anzi imparando a danzare insieme a questi, poiché è grazie all’andare giù, in profondità, a fondo, entrando in contatto con le parti oscure di noi stessi, che non solo non affondiamo, ma riusciamo anche a trasformare il dolore in un atto creativo, vitale e foriero di luminosità.

C’è poi la fiducia delle persone, senza la quale sarebbe tutto inesorabilmente perduto. Come in una visione distopica, ma è il risultato di una banale quanto semplice valutazione della condizione in cui ci siamo ritrovati.

Crediamo in un’utopia liberatoria che traspare come un sogno quasi masochistico perché nullo, una bolla di sapone che ci illudiamo essere realizzabile. Alla fine, credervi e, contemporaneamente, essere realisti non è una contraddizione; per eccellenza, filosoficamente essa è attuabile a condizione di ottenere il necessario consenso collettivo perché, se imposta con la forza, non è più tale.

Un’utopia generosa e non paternalista non può essere realizzata da una massa, solo i piccoli gruppi possono farlo perché solo al loro interno la comunicazione diretta è efficace.

Oggi siamo a questi livelli? Non credo, la comunicazione è generalizzata, è quindi credibile solo quando i fatti da riferire sono già noti a tutti in precedenza; non è possibile per propagandare idee nuove. E, se avviene, possono aver subito una profonda mutazione e, quindi, una degenerazione.

Quando facciamo i conti con una minaccia alla nostra esistenza, entriamo in uno stato d’emergenza come in tempo di guerra, che può durare anni. Per garantire le condizioni minime della nostra sopravvivenza è inevitabile mobilitare tutte le nostre risorse.

Diventa difficile immaginare una società e civiltà diversa da quella in cui sembriamo ormai immersi come pesci che non possono uscire dalla vasca in cui nuotano e vengono allevati.

Ecco che ci dovremmo aspettare che nel tramonto delle ideologie e dei progetti di emancipazione collettiva, come apparivano nello scorso secolo, assisteremo alle lotte tra le varie élite, tra “illuminati” profeti di un mondo in cui l’essere umano capisce finalmente di essere inconsistente, se non relazionato in maniera reciprocamente ambivalente con individui e natura, e “malefici” assertori del dominio di un’oligarchia di macchine con sembianze umane, su tutto ciò che resterà della Terra dopo il passaggio della loro devastazione.

Del resto, la sopravvivenza significa tante cose: vuol dire “esistenza”, ma anche, appunto, “armonia” e “persistenza” nel tempo. Diciamolo francamente, la prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra, con evidenza, è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita.

Siamo così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e costante emergenza, che non sembriamo accorgersi che la nostra vita è stata ridotta ad una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva. Una società che vive in un continuo stato di emergenza non può essere una società libera.

Noi, di fatto, viviamo in un contesto che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannato, per questo, a perdurare in un’eterna condizione di paura e di insicurezza.

Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Giorgio Agamben 

Quello che viene dopo è una lunga attesa. L’anticamera dell’incognito, lo sguardo che si sposta da un abisso all’altro. Immaginando le ripide dell’anima e confondendole con i deliri che ci provengono dall’esterno.

Allora non sappiamo se valga la pena rimpiangere questo mondo che va via, che declina e non va oltre un orizzonte offuscato. Abbiamo e ci resta una idea vaga dell’umano e del divino, nonostante le onde implacabili del tempo stiano cassando come un volto di sabbia sulla sabbia della storia.

Ma, con altrettanta decisione, rifiutiamo un’esistenza nuda e senza volto, fino a rigettare anche la religione della salute che i governi ci propongono e ci impongono. Siamo illusi ad attenderci un nuovo uomo figuriamoci un nuovo dio.

Bisognerebbe avere l’umiltà di cercare piuttosto qui e ora, fra le rovine che ci circondano, una più semplice forma di vita, che non è un miraggio, perché ne abbiamo memoria ed esperienza, anche se, in noi e fuori di noi, avverse potenze la respingono ogni volta nella dimenticanza.

Così anche la paura diventa una reazione: la tonalità emotiva che si dischiude quando l’uomo, perdendo il nesso fra il mondo e le cose, si trova irremissibilmente consegnato agli enti intramondani e non può venire a capo del suo rapporto con una «cosa», che diventa ora minacciosa.

Da qui l’esigenza di sopravvivere, sputando al cielo la noia che anche una schiacciante pandemia oggi ci insinua e che ci rende dei superstiti di lusso. Quelli che maledicono l’oggi ma non sanno costruire un vero domani.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.