Chi non ama la solitudine non ama neppure la libertà, perché si è liberi unicamente quando si è soli.
Arthur Schopenhauer
Vista come un rifugio, altre volte come una bestia nefasta che inquieta l’esistenza. Gestita come una malattia, surgelata come un’urgenza a cui abituarsi, strisciante ed ingombrante, delirante ed essenziale: è la solitudine.
Mai come in questi tempi, in una società che si lascia dominare dall’incognita, che cambia pelle costantemente, che si rinnova perdendosi le radici, che tramonta senza alba e che, soprattutto, non ha orientamenti né riconosce principi con un affaccio sul futuro, l’uomo è senza identità.
Nella sua feroce destabilizzazione gioco-forza c’è il fattore politico: il nostro essere animale ha bisogno di regole anche nella sua più assordante evoluzione; per questo, senza un credo che non sfoci nel fanatismo gretto e violento, senza un ideale non c’è riconoscimento. La politica ha mutato la società: non di certo nel suo generare ideologie e/o idoli ma nel sovrapporsi alla realtà accettando i suoi limiti senza mutare nulla del contesto bisognoso.
In altre parole, se non ci identifichiamo in nessuna classe/merito politico perché tutto ha perso simbolico valore, se lasciamo che sia perché tanto la degenerazione è più aggressiva della sola possibilità di rendere fertile il pensiero libero e civile, allora è quasi naturale che l’uomo si ritrovi solo, in un isolamento indotto che diviene espressione di un disagio culturale, sociale e relazionale. Come se qualcuno ci accompagnasse alla totale chiusura per un concreto disinteresse verso il mondo vitale. La casta annulla la solidarietà e la dimensione sociale viene ad inaridirsi.
C’è stato un tempo in cui la solitudine era nobilmente utile alla crescita interiore: un senso di arricchimento quasi iniziatico, dove il convulso esteriore era letto come un pericolo da cui scampare per non rendersi omologo al nulla e all’inferiore. Un tempo in cui l’arte aveva bisogno di sentire il solo passo dell’io muoversi nella sofferenza e nel dolore per comprenderne l’essenza ed estrinsecarsi.
Così come c’è stato il tempo che in cui occorreva fuggire dalla solitudine ed abbracciare la folla, esorcizzando l’asciutto appiattimento dell’angoscia, per un ritrovare esasperato e quasi mai autentico della propria personalità. Oggi la solitudine è a rischio di estinzione.
Distinguiamo subito: quello che stiamo vivendo è un mondo insensato, un contemporaneo bruciare di giorni. L’uomo solo è senza identità perché non riconosciuto nella e dalla società e, allo stesso tempo, rigettato dal forzare violento degli eventi. È uno che si è auto-esiliato perché sconsacrato, perché si sente fuori luogo, perché non appartiene a nessuna razza.
Poi, c’è la solitudine ricercata e quasi privilegiata: quella del poeta, dell’artista, dell’uomo che sceglie e non ama farsi cooptare da nulla e da nessuno. Ahinoi, anche questa forma di solitudine sta sparendo: ogni forma di isolamento è arsa dalla celerità in cui nuovi canoni e nuovi standard di umanesimo vengono imposti. C’è una pletora di imbalsamati benpensanti che dettano teorie di vita che richiedono spasimo e flessibilità, quindi connessione continua con il mondo leggero che pretende la società di Internet. Per questo, salvo qualche monaco ed asceta e uno sparuto numero di solidi soldati della libertà, la solitudine sta sparendo dalla nostra esistenza, facendo spazio all’isolamento.
Oggi è impersonale, vuota e, per quanto paradossale, anche distante. Serviva a rafforzare nella sua obliqua verità, a relazionarsi e ad accettare il mondo nelle sue pene, trasformando il silenzio in parole sacre ed uniche nel suo esercizio mentale. Quello che reputiamo, falsificando la verità e la conquista dell’uomo sui suoi abissi, è una impura inquietudine e un vacuo malessere.
Essere soli non cancella il senso di responsabilità individuale a cui siamo chiamati per determinare la consapevolezza della nostra civiltà. Essere soli non consente di riconoscere il bene dal male, la paura dalla scelta: essere soli è un mimetizzarsi con l’apparenza, con la grande bruttezza che ci stanno appioppando come annullamento del nostro pensiero. Si avverte un significativo senso di insoddisfazione dove l’assenza appartiene sempre meno alla parola ma sempre più all’inclusione nella comune specie e nel comune ordinamento.
Si saturano gli spazi per fare posto ad un riempimento globalizzato, ove ogni cosa è superflua quindi necessaria. Da qui, l’immersione sociale che stiamo attraversando, e che con la pandemia ha subito una decisa spinta, diviene una fuga dalle proprie frustrazioni. Ed è evidente che la solitudine da post-lockdown è un problema reale e va affrontata come una vera e propria emergenza sociale, dopo che nei Paesi di tutto il mondo sono entrate in vigore delle misure restrittive che hanno portato la maggior parte delle persone a cambiamenti di vita che, per alcuni, possono non essere reversibili.
Allora ci accorgiamo che oggi non vi è contatto fisico ma uno strofinarsi. Volgarmente direi che questa società si sta scatarrando addosso le sue banalità per dare un senso a quello che freneticamente impone questa accelerazione del tempo. Come una esasperante illusione nel cui vortice ci siamo auto-inseriti.
Ora come non mai la nostra solitudine è universale nel senso che appartiene a tutti. Non è nostra assoluta ma condivisa e scelta come patrimonio comune. C’è competizione in questo logorio che affascina masse di persone e, soprattutto, i più giovani.
La solitudine è bella, ma tu hai bisogno di qualcuno a cui dire che la solitudine è bella.
Honoré de Balzac
L’essenziale non sta più nel dialogo o nel raccoglimento: sta tutto in una scatola nera che abbiamo costruito e inserito al posto della nostra anima. Lì c’è tutto, anche l’orrore e la struggente bellezza del nostro essere. Oggi la solitudine non è più appagante, è un sonnifero che serve ad auto-escluderci per una auto-contemplazione il più delle volte poco sognante e molto più fallimentare. Quello che ci occorrerebbe è una solitudine che spinga l’uomo a una riflessione sulla propria condizione esistenziale e non un assetto di discriminante sociale, nella quale una persona poco socievole è etichettata come “strana” o “sfigata”, ed evitabile secondo l’ideologia dominante dei gruppi sociali di appartenenza.
Per chiudere possiamo rifarci ad un pensatore come Martin Heidegger. Per lui, la solitudine rappresenta la condizione dell’autenticità. Ovvero, è la condizione attraverso la quale ci si può riappropriare della propria esistenza. Questo perché in essa siamo riportati all’angoscia della nostra, come lui stesso diceva, «gettatezza», cioè lo spaesamento assoluto di chi scopre che qualsiasi ragione per vivere non è altro che una maschera. E si ci togliamo la maschera, la paura di essere quello che veramente siamo e, quindi, scoprire la reale essenza della nostra intima realtà, può rivelarsi irreversibile.
Non c’è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi, non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato.
Emily Dickinson
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.