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La mano del gigante

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Storia


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Si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con le sue difficoltà.
Aldo Moro

Ci sono date nella storia di un popolo che segnano il tempo in maniera indelebile. Date che muovono i fili delle esistenze, annodano pensieri e parole, capovolgono le verità assolute, convertono le paure in alibi, suscitano passioni e orrori, disegnano cifre stilistiche infinite e si perdono in un ovunque inenarrabile.

Ci sono date che sono ferite nella memoria come cicatrici sollevate sulla pelle di ciascuno di noi: ci legano nell’immortalità di quell’evento, pur sconosciuti gli uni agli altri diventiamo fratelli di sangue misto, esigendo la medesima emozione o, quanto meno, la stessa paralizzante reazione di fronte a quella grande vittoria della storia sull’uomo.

Date e storia sono figli di una cultura che esige di attribuire un significato ultimo all’incessante scorrere del tempo, restituendo il vuoto e il pieno delle cose, confondendo il sacro e la pietà con le tenebre e i lividi. È memoria persa tra le pieghe di una mano tremante nel ricordo disordinato di numeri che evocano dolori e bellezze, buio e luce, amore e terrore. Ecco la storia e le sue date rischiano di non insegnarci nulla nella loro ripetitività e, anche, nella loro celebrazione; è pur vero che l’uomo a cui neghiamo la storia perde la sua dimensione umana, ma non si può vivere sempre nel qui ed ora, nel tempo presente, nell’immediatezza, nella frangibilità dell’attimo trascorso.

Non siamo esseri mono-dimensionali: il nostro essere uomini, cittadini del mondo, affonda le radici in ciò che siamo stati e in tutto ciò che è stato prima di noi. Senza storia e il rispetto di essa il rischio maggiore che corriamo è di perdere l’unica cosa che ci separa, ci differenzia dalle bestie: l’umanità. La storia serve ad imparare la sacralità del tempo, diventando un ponte per il futuro che scongiuri ogni inevitabile dolore. Sarebbe un errore grave credere nella fine si essa: ci saranno sempre forze, sconvolgimenti, avvenimenti che faranno pensare ad un appiattimento e una omologazione delle civiltà come in un sordido piano di avviluppamento delle coscienze; ma basterà attendere il primo fattore variabile e non criptato, il vorace clangore delle armi, il passo assordante dei cortei cruenti dei rivoluzionari, o una inaspettata pandemia a far crollare le nostre certezze e catapultarci nel vortice brutale della storia. Poche, rare volte come protagonisti, quasi sempre da spettatori abusivi.

Quando una nuova epoca inghiotte l’epoca precedente, la lezione che possiamo trarre non è mai universale e inconfutabile. Può rivelarsi un serpente a due teste: fingere una eguale dimostrazione di tolleranza e benevolenza verso la società così come inghiottire ogni diritto e processo di democratica crescita. In quel momento la storia si rimette in moto con tutto il suo peso tragico. È un monito da tenere a mente sempre. Come una data indimenticabilmente dolorosa, che può segnare la vita di tutti e portare un intero popolo ad ingoiare l’amaro calice dell’orrore, del vuoto e del delirio.

Per comprendere il mondo globalizzato in cui viviamo oggi e la sua storia non sono più sufficienti i tradizionali strumenti sviluppati dalle scienze storiche a partire dal XIX secolo ed è sempre più avvertita la necessità di adottare nuove prospettive di ricerca nello studio del passato.

Lo storico tedesco Sebastian Conrad, professore presso la Freie Universität di Berlino, definisce la storia, almeno quella globale di cui è un profondo sostenitore, come:

una forma di analisi storica nella quale fenomeni, eventi e processi vengono inquadrati in contesti globali.

Un metodo diligente atto a sottolineare le connessioni, gli scambi e la circolazione di merci, persone, idee e istituzioni all’interno di processi storici su scala globale, il cui sguardo oltrepassa quei confini nazionali che così spesso la storiografia non ha osato oltrepassare. La tradizionale importanza conferita alla dimensione temporale e diacronica nell’analisi dei fenomeni interni a una società viene capovolta a favore di un nuovo interesse per il piano spaziale e sincronico: uno spostamento da una prospettiva ridotta e verticale ad una più ampia e orizzontale.

Questa proposta disciplinare non deve però essere ineluttabilmente intesa come sinonimo di storia dell’intero pianeta o dell’umanità dalle sue origini ad oggi. Le prospettive storico-globali non sono necessariamente orientate in senso macro-storico: viene, invero, considerato un oggetto concreto nella sua specificità spaziale-sociale e inquadrato in un contesto globale. Le questioni più appassionanti si collocano spesso al punto d’incontro dei processi globali con le loro manifestazioni locali.

Già nell’antichità, storici come Erodoto in Grecia, Sima Qian in Cina o Ibn Khaldū’n in Africa trattavano di civiltà e culture diverse e spesso geograficamente distanti dalla propria: non senza perdere la misura delle prospettive, la coesione analitica e trarre deduzioni che, in un modo o nell’altro, si riempivano di una ricerca empirica approssimativa e parziale. È il rischio che corre ogni storico che prova ad uscire fuori dal territorio dell’approfondimento tradizionale. Ma al di là dello studio della storia, quello che si evidenzia in questi tempi tormentati è quanto l’umanità sia stata compressa tra una paura millenaria e una presa di coscienza, stretta tra incertezza arcaica e reattività modernità che conferisce a questa situazione un carattere particolarmente angosciante ma non moribondo.

Qui la storia usa la mano da padrona del suo destino e le date sono i tasselli dello stesso mosaico: ci passa dall’inconscio sublimato dalla paura alla strumentalizzazione politico-economica, dalla polemica inutile ed eccessiva alla tragedia letta in salsa demagogica. Annullando il tempo del bilancio ma acutizzando quelle delle responsabilità. Quante volte abbiamo sentito la frase che dopo questa crisi, nulla sarebbe stato più come prima. Eppure, oggi ci pare ieri.

È evidente assai che questa crisi, che ha sfidato ogni schema, ha aperto il campo ad un confronto drammatico di un modello ideologico dominante nel mondo occidentale annunciato già da Francis Fukuyama nel 1992 ne ‘La fine della storia’, basato sull’immagine benefattrice di un mondo standardizzato dai mercati, disintossicato da ogni ostacolo alla comunicazione, collegato ad una fiducia esasperata nelle virtù del libero-scambio senza frontiere. Questa crisi innalza questioni fondamentali sulla debolezza di un mondo post-frontiere e iper-connesso, folgorato dalla tecnologia, frammentato nella fragilità della preghiera, ma con la certezza che la storia nella sua incontrollabile crucialità sopravvive anche alla sua presunta fine o ad ogni imprevisto.

L’identità nostra di oggi dipende dal contesto culturale in cui siamo cresciuti o ci siamo barbarizzati. Capire il contesto nel quale ci si è formati vuol dire capire se stessi e forse aiutarsi o annegare per sempre nel mare della banalità. E diviene fondamentale capire che questo contesto è frutto di un percorso storico, di avvenimenti che si sono susseguiti e di conseguenze che si sono intrecciate tra di loro. Solo comprendendo la storia e il suo momento possiamo comprendere il contesto, e, quindi, prendere consapevolezza della propria identità.

Le previsioni che si possono fare oggi su ciò che accadrà domani sono tali che ci si accorgerebbe che due volte su dieci possono risultare errate. Disgraziatamente o per buona sorte, di fronte al futuro la storia è come tutte le altre scienze dell’uomo: essa vive nel buio. Ma se da un lato questa potrebbe essere una fortuna perché coinciderebbe con la libertà, dall’altro siamo condannati a studiare, capire, e a volte affrancarci da essa, analizzando ciò che siamo stati e rivelando la nostra identità.

La storia non deve spiegare tutto ma avvicinarci alla realtà con rispetto e con sospetto. Deve porre domande e dubbi ma non seminare discordia. Può sembrare una contraddizione ma non è così: lo sviluppo generale delle scienze e la fallita variazione psicologica degli uomini, atta al suo progredire etico, che restano insabbiati nei loro atti, vicini alla spietatezza, alla malvagità primordiale, pare paradossale ma deve essere collocata nella dimensione umana degli eventi. Ecco che ci troveremo sempre trascinati nel vortice dell’incompiutezza, con l’uomo scosso nella sua vita sociale tra l’illusione di aver compreso e la demoralizzazione dell’inarrivabile. Con un deficit alto di limitazione della libertà che ci porteremo sempre dietro. Credo che la storia sia un avo traditore: ci lascia sempre un’eredità difficile che con il suo peso schiaccia l’uomo compromettendo l’avvenire. Cercare nel passato la chiave di volta, la spiegazione ai mali di oggi e prevenire, quindi, l’incognita del futuro, non sempre si rivela la soluzione migliore: non basta capire cosa è successo se questo non trascende dall’emozione umana, non traumatizzando l’animo al punto di lasciare quel segno, quella cicatrice di cui parlavamo all’inizio. La storia, insomma, mostra lo spessore della realtà. È la condizione per l’appropriazione simbolica e non solo strumentale del mondo. In questo modo, educarci alla storia significa attribuire ai fatti un compito di auto-critica. Significa ricercare nella complessità degli eventi la profondità e la dinamicità dell’esistenza, affrontare il lato traumatico e benevolo mettendosi nelle condizioni migliori di aspirare a raggiungere il centro dei valori che conquistano l’etica della società: fratellanza e solidarietà per la convivenza sociale, intelligenza sociale e politica per farsi governare bene, tolleranza e uguaglianza per rigettare ogni nazionalismo bieco e godere della libertà assoluta e civile, dei suoi diritti e dei suoi doveri.

Ogni genuina conoscenza è conoscenza storica.
Benedetto Croce

La storia, in questo senso, è custode di un patrimonio comune, trasmette l’eredità culturale del lungo cammino dell’umanità dal passato fino al presente. Essa riproduce l’evoluzione delle “grandi idee”. In questo senso, oggetto della storia non è la società, o le istituzioni stesse, ma, come si è detto, gli uomini – al plurale – nei loro contesti.

Così la storia diviene memoria di noi e quindi di se stessa. Ricostruendo gli avvenimenti, ogni evento dalla sua nascita alla deviazione o alla slegatura dalla dimensione iniziale e naturale, conserviamo la memoria, con l’impegno di non trasfigurarla ma comprenderla, non definirla ma ampliarla, non calpestarla ma rispettandone ogni versione che sia messaggio incorruttibile. La storia intesse un dialogo tra le memorie, trasmette un filo conduttore costruito dalle tradizioni dei diversi gruppi. Dai dolori e dalle gioie di ogni singolo popolo. Dalla loro forza a rinascere e dalla loro sensibilità nello spegnersi.

Il filosofo Paul Ricouer affermava:

La liberazione di un futuro incompiuto del passato è il beneficio maggiore che ci si può attendere dall’incrocio delle memorie e dallo scambio dei racconti.

Gli eventi fondano la storia e la sua carica di speranza o di disperazione. A seconda della lettura dei fatti. Lasciandoci lo spazio per intervenire. Sta a noi stabilire se contribuire a chiarire un presente che si è fatto oscuro o se nasconderci nella nostra torre eburnea. Serve dimostrare che guardare al passato non è solo un modo per appagare validi interessi ma che può essere un modo indispensabile di comprensione del mondo d’oggi.

Occorre far capire a tutti che la storia serve. Perché siamo legati ad essa, siamo le pagine ingiallite di un libro su cui continua a scrivere imperturbabile la mano di un gigante.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.