Chi è devot…
Ra’ Maronn e L’Arc
Sorèèè Arricurdatavil stu Bellu nommè
Sorèèè A’ Maronn
Coro: Mamm e’ L’arc, A’ Mamm re Grazie
Questo canto, questa prima strofa di una lunga invocazione, inizia la domenica mattina subito dopo l’Epifania, dopo la rivelazione, quando è ormai assodato che la nuova “luce” ha squarciato le tenebre ed illuminerà, sempre più, il mondo, o al più tardi il 17 gennaio, inizio carnevale, inizio delle maschere e delle licenziosità, per i vicoli napoletani e della provincia.
È un cerimoniale, accompagnato anche da bande musicali, che si ripete ogni domenica mattina fino al Lunedì in Albis, dopo l’equinozio di primavera, dopo il passaggio simboleggiato dalla Pasqua ed illuminato dalla luna piena.
È la questua dei fedeli o, meglio ancora, dei devoti della Madonna dell’Arco, effige di Madonna bruna con bambino con caratteristiche orientaleggianti, iconografia, direi, egiziana, che cercano fondi per costruire “toselli”, “labari” e beneficenza da portare al santuario omonimo.
La “cerca” si chiude il mattino della Domenica di Pasqua con l’uscita della bandiera dell’associazione, che, accompagnata dalla banda musicale e dai dirigenti, va casa per casa del Borgo alla ricerca di ultime più sostanziose offerte alla Madonna, mentre ad ogni angolo di strada altri questuanti raccolgono le ultime donazioni dei passanti, siano essi della zona o meno. La Madonna è la Madonna!
La questua ha una sua origine penitenziale nella tradizione cristiana: per ottenere la grazia richiesta, il devoto promette alla Madonna di sottomettersi al gesto umiliante del mendicare e di portare i soldi raccolti al Santuario per i bisogni del culto e della carità.
Storia della Madonna dell’Arco
Dove nasce questa tradizione tipica napoletana? Come è esplosa la devozione popolare intorno all’immagine della Madonna dell’Arco uno tra i più antichi e famosi luoghi di culto campani?
La pia usanza di erigere edicole sacre lungo le vie, sui muri delle case, sull’ingresso dei poderi, è antichissima. Un uso che segnava, al di là della devozione, punti di riferimenti nel territorio. Tante sono le testimonianze rimaste quasi intatte da molti secoli.
Così, nel Quattrocento, sorgeva un’edicola dedicata alla Madonna sul margine della via che collegava a Napoli i vari comuni vesuviani, nel lato del monte Somma.
Tale edicola si trovava a circa otto chilometri dalla capitale del Meridione d’Italia, in territorio del comune di Sant’Anastasia, nella contrada che si chiamava “Arco” per la presenza dei resti delle arcate di un antico acquedotto romano.
La denominazione “dell’Arco” è collegata ad un preciso episodio.
Era il lunedì di Pasqua, 6 aprile 1450, e nella località “Archi”, così chiamata, come detto, per la presenza delle arcate di un acquedotto romano, si svolgeva una festa paesana. Due giovani giocavano a chi facesse andare più lontano una palla di legno colpendola con un maglio.
Nel gioco, la boccia di uno dei due andò a sbattere contro un albero di tiglio che sorgeva vicino all’edicola della sacra immagine, facendogli perdere la partita.
Il perdente, accecato dall’ira, bestemmiando scagliò la boccia contro l’effige della Madonna, colpendola alla guancia sinistra. Questa, come se fosse di carne, cominciò a sanguinare.
La gente si gettò sul sacrilego e stava per linciarlo, quando, passando di lì il Conte di Sarno, Raimondo Orsini, Gran Giustiziere del Regno di Napoli, fece liberare il malcapitato.
Dopo un processo sommario, constatato il miracolo, il sacrilego venne impiccato allo stesso albero di tiglio che aveva fermato la boccia. Dopo ventiquattr’ore l’albero seccò.
I fedeli accorsi nei primi tempi dopo il miracolo della guancia insanguinata, dovettero essere numerosi, e molti i voti e le elemosine, perché troviamo che la chiesetta, quantunque piccolissima, fu dichiarata rettoria e beneficio canonico, senza cura pastorale, e i rettori erano nominati dalla Sede Apostolica.
Per proteggere la sacra immagine, il cavaliere napoletano Scipione De Rubeis Capece Scondito, devotissimo della Vergine dell’Arco e riconoscente per una grazia ricevuta, provvide a migliorare la statica, l’ornamento e la decorazione di tutto il tempietto che munì di un robusto cancello di ferro.
Successivamente, per evitare che l’immagine fosse guastata dall’intemperante devozione dei fedeli, ne coprì il volto con un grosso cristallo fino al busto e il rimanente con un cancello di legno dorato.
Conosciamo con esattezza la posizione e la forma di questa chiesetta e dell’edicola della Vergine, sia per i documenti trovati nell’archivio di Nola, sia per una tavoletta votiva del 1590 ritrovata nel santuario, la quale riproduce la chiesetta come era in quel tempo. L’immagine, immediatamente venerata dal popolo, divenne fonte di grandi prodigi.
Nel 1593 si iniziò la costruzione del santuario ultimata nel 1610.
Il volto della Madonna si arrossò di sangue di nuovo nel marzo del 1638. Del fatto fu redatto un atto notarile alla presenza del Viceré di Napoli, del Vicario Generale di Nola e di molti sacerdoti, religiosi e laici.
Altro Miracolo
Aurelia del Prete, donna deforme di animo e di corpo, invece di serbare gratitudine alla Vergine dell’Arco per una grazia ottenuta, spesso la bestemmiava orribilmente. Il lunedì di Pasqua del 1589 scandalizzò un’immensa folla accorsa a venerare la Sacra Immagine pronunziando nerissime imprecazioni. L’anno seguente, nella notte tra la domenica e il lunedì di Pasqua 1590, le si staccarono dalle caviglie i piedi che si conservano tuttora in una gabbietta nel Santuario.
Il Vescovo di Nola fece dell’accaduto regolare processo canonico e da quel giorno la devozione alla Madonna dell’Arco si propagò grandemente.
Ma, chi sono questi “devoti” che girano quartiere per quartiere chiedendo offerte da devolvere alla Madonna? Essi vengono detti Fujenti, coloro che corrono in atteggiamento di fuga.
La loro tradizionale divisa è composta da una camicia o maglietta bianca, simbolo di purezza, come quella di un bambino appena nato che cresce sempre più rigoglioso e si prepara alla vita, una fascia azzurra colore della Madonna, del cielo terso e luminoso con l’immagine della Madonna dell’Arco e una fascia rossa in vita che simboleggerebbe il miracolo del sangue o, dico io, l’Opera al Rosso.
I Fujenti sono chiamati anche “Battenti” per il continuo battere i piedi a terra in modo ritmato e cadenzato.
I devoti sono organizzati in numerosissime associazioni, capillarmente diffuse sul territorio.
La loro devozione consiste essenzialmente nel correre il Lunedì in Albis fino al santuario. Ciascuna associazione il giorno della festa è rappresentata da una propria squadra detta “paranza”, che ha il compito di portare a spalla un “tosello”, di solito una statua della Madonna dell’Arco in trono, simboleggiante anche una barca. La paranza è preceduta da uno o più stendardi che recano il nome dell’associazione, il luogo di provenienza e la data della fondazione.
Segno visibile dell’impetrazione e delle gratitudine dei fedeli sono le migliaia di ex voto – i più antichi dei quali datano gli ultimi anni del Cinquecento – che tappezzano le alte pareti del santuario. Si tratta di una delle maggiori raccolte di arte popolare esistente in Europa: una ricapitolazione enciclopedica della pietà popolare. Oltre che una preziosa testimonianza relativa a quattro secoli di storia “minore”.
Il pellegrinaggio, però, richiede una lunga preparazione che incomincia settimane prima del Lunedì in Albis, dove ci si prepara per la coreografica “caduta” ai piedi della Madonna. Festa religiosa, manifestazione di folklore popolare.
Si celebra in un clima di forte inquietudine e delirio “mistico-cultuale” chiamato “frenesis”, dove il devoto dinanzi all’immagine della Divinità ha un attacco di frenesia o “obnubilamento”, perdita temporanea delle capacità sensoriali e intellettive, unite alla forte emozione.
Questa “caduta” è il momento più forte e sentito per ogni Fujente, che, quando il capo paranza impartisce l’ordine con il fischietto, si lancia a terra e vi rimane immobile, fino a quando non riceve l’ordine di rialzarsi. Non è raro vedere Fujenti che dopo la caduta striscino la lingua per terra in segno di ringraziamento.
Finito il pellegrinaggio, giunge ai fedeli il battito ossessivo dei tamburi che accompagnano le “tammurriate” o danze ‘ncopp’ ‘o tammurro. Danze rituali che diventano liberazione e che perdurano fino a tardi, dissolvendo la forte tensione accumulata durante il pellegrinaggio.
E in rituali così teatrali e allo stesso tempo così pregni di intensissima religiosità, riemerge la figura di una Madonna Ferita; madre addolorata che diventa, tuttavia, simbolo di protezione dal male che affligge ogni giorno ciascuno di noi. Ed è in quella Madre che si identifica la “Mamma di tutte le mamme” colei che può guarire il dolore.
Sono gesti ancestrali ed antichissimi che ancora una volta ci riportano in un passato lontano di cui spesso dimentichiamo l’esistenza e l’importanza, ma che viviamo inconsapevolmente nella nostra quotidianità.
Chi è devot’ ‘sta Maronn’e ll’Arc’
sorè tenitece ‘a fede
chill’è nu bellu nomme
sorè… ‘a Maronn’
Consideriamo, anche, il rinnovamento del Cosmo, della natura. Sono da osservare gli antichi rituali inneggianti alla fecondità, alla fertilità ed alla terra. La grande Madre è anche la Terra da seminare e raccogliere. Il rito dei Fujenti, da gennaio al Lunedì in Albis, il loro cerimoniale, le varie scenografie, ricalcano l’antico omaggio a Cerere, a Dioniso, a Priapo, alla natura, alla terra che si rinnova e che deve essere fecondata, alla fertilità.
È un inno alla gioia, alla vita. Dalla Grande Madre, la Terra, alla Grande Madre, la Madonna.
Caratteristici sono il particolare “saluto” del capo paranza, la nudità dei piedi dei fujenti, il contatto con la terra, la posizione del portastendardo, l’ingresso in gruppo, quasi come un’esplosione, dopo essere andati avanti e indietro ritmicamente, insieme con toselli e labari, navi e vele, o lo strisciare a serpentina, come ad avanzare in un fluido, a nuotare, dei fujenti dall’ingresso del Santuario verso l’altare, considerando l’entrata come grande utero materno…
Si potrebbe continuare, ma credo sia bene fermarsi e procedere per tappe.
Ricordo solo che, anche se per i dormienti tali canti domenicali mattutini possono essere fastidiosi, queste tradizioni arcaiche non debbono scomparire. Al popolo il compito di portarle avanti. Poi… chi ha orecchie per intendere intenda e chi ha occhi per vedere veda.
Autore Giuseppe Strino
Giuseppe Strino, docente in pensione, esperto di cultura, esoterismo e tradizioni partenopee.