Istinto o irrefrenabile passione?
Quante volte ci è capitato di riflettere sui motivi intrinseci che scatenano i conflitti tra esseri umani, generazioni, popoli e nazioni?
Spesso siamo condizionati, nella ricostruzione delle cause, da quello che ci suggeriscono i mezzi di comunicazione, altre volte ci sentiamo direttamente coinvolti in quelle che possono sembrare ragioni validissime a scatenare guerre e astio sociale, più spesso lasciamo che a prendere il sopravvento siano le nostre ideologie politiche a schierarci acriticamente da una parte o dall’altra.
A proposito di tematiche come il conflitto o la guerra, mi viene in mente un bellissimo libro scritto dal filosofo e psicoanalista statunitense James Hillman, ‘Un terribile amore per la guerra’, l’edizione Adelphi è del 2005, in cui l’autore ci spiega, con grande perizia di particolari, riallacciandosi a più vicende storiche e anche al mito, come, di fatto, la guerra sia una pulsione irrefrenabile, un istinto primordiale pari all’amore e alla solidarietà, un bisogno primario al quale non si possa sfuggire né tanto meno sottrarsi nel momento di dirompenza della sua forza distruttiva.
La guerra, dichiara Hillman, è quell’elemento che purifica, che rigenera, che unisce; è il simposio sanguinolento attorno al quale si condividono, si narrano e rinsaldano memorie collettive a spese del nemico, il capro espiatorio scovato e sacrificato in nome di un’identità ritrovata.
Eppure, c’è anche chi pensa che non sia proprio così: c’è chi pensa, appunto, che la guerra e il conflitto collettivo siano soprattutto una costruzione culturale, che esista sì una pulsione aggressiva, ma che questa possa essere razionalmente controllata e convogliata in diversi modi: la guerra è uno di questi. Vero è che ad avvalorare quest’ultima ipotesi contribuisce una quantità considerevole di giustificazioni che l’uomo ha dato e che sempre tenta di dare allo scoppio della violenza. Come se, appunto, in contesti di pacificazione risultassero inaccettabili, discutibili e disumane le conseguenze del conflitto in armi.
Se veramente l’uso della violenza fosse naturale e nell’ordine delle cose, perché dovremmo continuamente trovare delle valide motivazioni per giustificarlo?
Sappiamo ormai bene che le diverse società hanno imparato a travestire le vere ragioni alla base dei conflitti, per lo più di natura economica e legate all’accaparramento di materie prime e beni di consumo, con ideali nobili, e intenti leciti, talvolta religiosi, attraverso i quali si incita e si sprona alla guerra, ridimensionando, contemporaneamente, la portata etica e sociale del massacro. Altre volte si lascia credere che la violenza sia necessaria allo scopo di difendere limiti territoriali e risorse preziose, altre volte si associa l’uso della forza collettiva a valori come l’orgoglio, l’onore, il coraggio e l’abnegazione alla giusta causa.
Le innumerevoli religioni esistenti insieme ai rispettivi testi sacri, fanno riferimento alla violenza descrivendola come lo strumento attraverso il quale si compie la giusta lotta tra il bene e il male. Giovanni, per esempio, nell’Apocalisse del Nuovo Testamento, descrive uno tra i topos letterari, più belli e brutali: l’eterno conflitto tra Dio e Satana. Dichiararsi figli di Dio e parlare di figli di Satana equivale a utilizzare metafore che sanciscono e aiutano a legittimare la distinzione tra buoni e cattivi, tra giusti e malvagi.
Non ci meraviglia, dunque, che credenti, adepti e fedeli di qualsiasi credo, abbiano strumentalizzato e continuino a strumentalizzare principi religiosi per rivendicare posizioni politiche, sociali ed economiche in nome di Dio. Porre lo scontro in una dimensione ultraterrena, come quella divina, conferisce alle ragioni della violenza maggiore importanza e legittimità.
La congettura politica fondata sulla retorica della lotta tra il bene e il male è quella che viviamo costantemente attraverso il dibattito mediatico, parlamentare, del comizio, ma ad una scala più alta, la faida politica può sfociare in un autentico conflitto, che, da ideologico, si fa vessatore di lacrime e sangue.
Fare la guerra vuol significare mettere in scena una cosmologia e, allo stesso tempo, una cosmogonia, in cui a farla da padrona è la speranza in una vittoria idealizzata e perseguita oltremodo. È altresì constatabile che la virulenza del conflitto apra le porte all’esercizio del potere e dispieghi la forza degli individui umiliati e oppressi.
A tal proposito è interessante la riflessione del sociologo americano Juergensmeyer:
Vivere in stato di guerra è vivere in un mondo dove i singoli individui sanno chi sono, perché soffrono, da chi sono stati umiliati e a quale prezzo hanno perseverato.
Il concetto della guerra mette a disposizione una cosmologia, una storia e una escatologia e offre le redini del controllo politico.Forse l’aspetto più importante di tutti è che la guerra offre la speranza della vittoria e i mezzi per ottenerla. Nelle immagini di guerra universale questo momento di trionfo è un grande momento di trasformazione sociale e personale che trascende tutte le limitazioni terrene. Non si rinuncia facilmente ad aspettative del genere.
Vivere senza queste immagini di guerra è quasi come vivere senza la speranza stessa.
Autore Marilena Scuotto
Marilena Scuotto nasce a Torre del Greco in provincia di Napoli il 30 luglio del 1985. Giornalista pubblicista, archeologa e scrittrice, vive dal 2004 al 2014 sui cantieri archeologici di diversi paesi: Yemen, Oman, Isole Cicladi e Italia. Nel 2009, durante gli studi universitari pisani, entra a far parte della redazione della rivista letteraria Aeolo, scrivendo contemporaneamente per giornali, uffici stampa e testate on-line. L’attivismo politico ha rappresentato per l’autore una imprescindibile costante, che lo porterà alla frattura con il mondo accademico a sei mesi dal conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Da novembre 2015 a marzo 2016 ha lavorato presso l’agenzia di stampa Omninapoli e attualmente scrive e collabora per il quotidiano nazionale online ExPartibus.