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La fame e la sete

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Fame e sete nel deserto


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A te. Straniero, se passando mi incontri e desideri parlarmi, perché non dovresti farlo? E perché non dovrei farlo io?
Walt Whitman

In altri articoli abbiamo fatto riferimento alla forza che hanno certe fotografie, che lasciano un segno indelebile nella nostra mente.

A volte ci fanno sognare, entusiasmare, illudere; in altre ci compromette l’accordo con l’indifferenza della nostra anima e ci porta a riflettere, a sentirci piccoli, inermi, superficiali. Sono quelle che dovrebbero devastarci e farci comprendere meglio l’infinità del dolore di essere uomini dimenticati su questa terra.

Mi sto riferendo all’immagine simbolo del dramma che stanno vivendo i migranti subsahariani: cacciati dalla Tunisia e deportati nel deserto, al confine con la Libia. La frontiera tra Tunisia e Libia è uno spartiacque sterile, dove i sogni vengono infranti e l’umanità sfidata.

La mamma e sua figlia. Uno scatto che colpisce, che è un pugno nello stomaco. I corpi senza vita di queste due donne sulla sabbia del deserto libico, tragico esito dell’estremo tentativo di una madre tra caldo, fame e disidratazione. Sole nell’inferno sabbioso. Stese sulla sabbia, riarse dal sole.

La mamma cercava di abbracciare la figlia come se volesse proteggerla per l’ultima volta, l’estremo disperato tentativo prima di morire entrambe di sete e caldo.

È questa la foto che cristallizza l’ultimo dramma dei migranti. Non sappiamo nulla di loro: né i loro nomi, da dove vengano, né quale sia la loro storia, dove si trovassero precisamente in quel momento o dove sognassero di arrivare. Sappiamo solo che sono morte.

La foto scattata da Ahmad Khalifa, giornalista libico che lavora per Al Jazeera, e ripresa da molte ONG e media arabi, descrive più delle parole il dramma dei migranti subsahariani che provano a varcare il confine tra Libia e Tunisia e vengono respinti dalla polizia tunisina.

Rintracciati per strada, caricati sui pullman e abbandonati nel deserto al confine con la Libia. Qui, senza acqua né cibo, sono in pochi a sopravvivere e ad essere messi in salvo da chi li trova, sfiniti.

Come nel 2015 l’immagine del corpicino senza vita di Alan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum costrinse il mondo ad aprire gli occhi sulla disperazione dei migranti che cercavano salvezza in Europa attraversando l’Egeo, adesso è l’istantanea di queste due donne a rivelare, per chi vuole vedere e sentire, la tragedia dei subsahariani deportati nel deserto africano.

È un caso in cui dobbiamo vergognarci di queste morti che, magari, non sono le sole e non lo saranno, perché dipendono da noi, dal nostro volere.

Si può abbandonare esseri umani, come noi bisognosi di cibo, di acqua, di riparo diurno e notturno, soprattutto bisognosi di accoglienza?

Accoglienza semplice, non sofisticata, ma quella che può guardare negli occhi la persona che hai davanti. In quella fotografia della vergogna, un aspetto fa tremare lo sguardo: non si vede il volto della madre e della figlia, cadaveri.

Accanto alle parole resta la storia di questi ultimi anni. Ormai decenni in cui le immagini di migranti morti mentre cercavano di raggiungere l’Europa non hanno mai smesso di raggiungerci. In mezzo alla neve d’inverno, nel profondo del Mediterraneo in estate e nel deserto. La tragedia di Cutro, il naufragio di Pylos in Grecia e i salvataggi quotidiani, che proseguono spesso nel silenzio.

La migrazione è un fenomeno doloroso, che cela tragedie infinite: è spesso il risultato di problemi strutturali e disuguaglianze socioeconomiche, che costringono gli individui a cercare condizioni di vita migliori altrove.

Il processo migratorio può anche portare a sfruttamento e discriminazione, mettendo in evidenzia le difficoltà nella gestione e il rispetto dei diritti umani globali.

Tra i motivi socio – politici che spingono le persone a scappare dal proprio Paese ci sono le persecuzioni etniche, religiose, razziali, politiche e culturali. Anche la guerra o la minaccia di un conflitto e la persecuzione da parte dello stato sono fattori determinanti per la migrazione. Coloro che fuggono da conflitti armati, violazioni dei diritti umani o persecuzioni possono essere definiti profughi o migranti umanitari.

Questa loro condizione influenza la loro destinazione, in quanto ci sono Paesi che hanno un approccio più liberale di altri per per quanto riguarda l’accoglienza dei richiedenti asilo. Vengono accolti solitamente nello Stato più vicino che accetta richiedenti asilo.

Servirebbe avviare un percorso condiviso in grado di attuare misure concrete per la crescita e lo sviluppo del Mediterraneo allargato e l’Africa, per affrontare le cause profonde dei flussi irregolari e per sconfiggere l’attività criminale dei trafficanti di esseri umani.

In effetti, con i Paesi di provenienza dei migranti il partenariato deve essere egualitario, non predatorio, multidimensionale e di lungo periodo. Deve essere giustificato sul rispetto e non su un avvicinamento paternalistico, sulla solidarietà, sul rispetto della sovranità di ciascuno, sulla condivisione di responsabilità sulla tutela della legalità.

Questo è l’unico modo serio di rafforzare il legame tra i Paesi, fidarsi l’uno dell’altro e favorire lo sviluppo e la prosperità dei popoli. Sia l’Italia sia l’Europa hanno bisogno di immigrazione, ma non possono dare il segnale che verrà premiato chi entra illegalmente.

L’immigrazione illegale di massa danneggia tutti, se non le organizzazioni criminali, che usano la loro forza sulla pelle dei più fragili. Questo è stato ribadito anche nella prima ‘Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni’ organizzata su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, che si è conclusa con un patto tra i leader dei Paesi del Mediterraneo e del Golfo con l’Italia e i vertici dell’UE.

Sulla stessa lunghezza d’onda è stata anche la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha affermato la necessità di reprimere i trafficanti e distruggere il loro cinico modello di business.

È chiaro a tutti che occorre l’apertura di nuovi percorsi legali tra i continenti così da creare un’alternativa reale e sicura ai pericolosi viaggi in mare e non solo. Sono le proposte, le idee, il programma.

Ora, però, servono i fatti, altrimenti le foto con l’orrore che ci scava negli abissi resteranno come fantasmi che aleggeranno sulle nostre esistenze tra un social e una indifferente urgenza di fingere di essere umani.

I migranti sono eroi perché fanno a meno delle certezze ingannevoli legate all’appartenenza ad un posto fisico. A volte fanno paura, perché agli occhi di coloro che si trovano ‘a casa’ sono la prova che il loro senso di appartenenza ad un luogo o di possesso può essere illusorio.

Patiscono la fame e la sete, il loro pianto inconsolabile ha attraversato mari e deserti per naufragare sul monitor freddo del nostro smartphone. La verità sta tutta qui.

La nozione di immigrato è un errore. L’immigrato è qualcuno che fa un viaggio regolare da un punto a un altro, come l’uccello migratore, appunto. Qui invece è gente che fugge dai massacri. Né sono rifugiati, perché un rifugio lo stanno cercando. Bisogna cercare una parola che non menta. Una volta che la si sarà trovata, si sarà già fatto un grande progresso.
Michel Butor 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.