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La democrazia che non c’è

Alexis de Tocqueville


Dalla dittatura della maggioranza a quella di una minoranza

Come preannunciato nell’articolo precedente, continuiamo ad approfondire il discorso circa la democrazia, che abbiamo definito come una truffa.

A prescindere da quelle che sono le degenerazioni della stessa, quello che ci preme far emergere è che sia sbagliata, sostanzialmente, nella sua forma ideale, prima di ogni possibile corruzione.

Già nel 1835, Alexis de Tocqueville, nel suo saggio ‘La democrazia in America’, scrisse:

Sotto i regimi assoluti il despota, per raggiungere l’anima, colpiva grossolanamente il corpo, e accadeva che l’anima sfuggendo alle percosse, si innalzasse gloriosamente sopra di esso; ma nelle democrazie la tirannide non procede a questo modo, essa non si cura del corpo, va dritta all’anima.

Emerge, quindi, quella che potrebbe sembrare una contraddizione, un nucleo di tirannide insito nella stessa democrazia.

Nella stessa opera scrive:

Un uomo o un partito che abbia patito una ingiustizia negli Stati Uniti, a chi può rivolgersi? Non all’opinione pubblica perché essa stessa che forma la maggioranza; non al corpo legislativo perché esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente; non al potere esecutivo perché è nominato dalla maggioranza e gli serve da strumento passivo; non alla forza pubblica, perché essa altro non è che la maggioranza armata; neppure a un tribunale, poiché è la maggioranza che lo ha investito del potere di pronunciare le sentenze.

La democrazia, dunque, appare come la dittatura di una maggioranza che reprime ogni altra voce, che permea la società in ogni sua struttura, in ogni sua esplicitazione dei rapporti di potere, in modo anche da frenare l’alternanza politica e la mobilità sociale; Pierre Bourdieu, nel 1979 pubblica ‘La distinzione’, scritto nel quale affronta questa tematica, dove mette in evidenza come la società francese sia caratterizzata da una mobilità sociale, appunto, che tocca al massimo il 2%.

Questo perché, come sostenuto da Joseph Schumpeter in ‘Capitalismo, Socialismo, Democrazia’, il bene comune è un altro mito da sfatare:

Prima di tutto, un bene comune univocamente definito, sul quale tutti possano concordare immediatamente o in forza di un’argomentazione logica, non esiste. E questo non perché alcuni possano desiderare qualcosa di diverso dal bene comune, ma perché, considerazione molto più importante, il bene comune avrà significati diversi per individui e gruppi diversi.

Non esisterebbe, dunque, un bene comune inteso come tale, ma quello che è inteso come bene da un singolo individuo, ma soprattutto da un determinato gruppo sociale, partito politico, da qualsiasi aggregazione, insomma, che possa determinare una maggioranza parlamentare.

Questo porta le maggioranze a privilegiare i propri interessi particolari, settari, a scapito di quelli che, invece, sono a cuore alle minoranze, con l’effetto di rafforzarsi ulteriormente, dal punto di vista economico, di occupazione di centri di potere, di conseguenza anche in termini elettorali. La forbice con le minoranze diventa sempre più ampia, sempre più difficile da colmare, soprattutto in virtù di una scarsa mobilità sociale che finisce per assomigliare, in quanto a rigidità, a quella delle caste.

Ma anche il concetto di partecipazione è irrealistico, per l’economista austriaco:

La teoria classica della democrazia attribuisce alla volontà dell’individuo un’autonomia ed una razionalità del tutto irrealistiche. Se deve essere di per sé un fatto politico degno di rispetto, la volontà dei cittadini deve prima di tutto esistere: cioè, dev’essere qualcosa più di un fascio confuso di impulsi vaghi, operanti su slogan ed impressioni equivoche.
Ognuno dovrebbe sapere esattamente per cosa desidera battersi, e questa volontà univocamente definita dovrebbe essere completata dalla capacità sia di osservare e interpretare al modo giusto i fatti che sono accessibili direttamente a tutti, sia di vagliare criticamente le informazioni ricevute sui fatti che accessibili non sono.

La scarsa attitudine dei presunti cittadini all’interpretazione dei fatti, accompagnata all’altrettanto scarsa conoscenza degli stessi, porta a quella che sì, possiamo individuare come una degenerazione della democrazia, che da dittatura della maggioranza rischia di trasformarsi nella dittatura di una minoranza.

Ma facciamo un esempio, vicino a noi, nel tempo e nello spazio.

Esaminiamo i dati delle politiche italiane del 4 marzo, usando come fonte quella ufficiale del Ministero dell’Interno.

Sia chiaro, il discorso è generico, non si rivolge a questa o a quella parte politica, ma vuole semplicemente analizzare la democrazia come forma di governo, l’analisi, sociologica e non politica, si rivolge solamente, per comodità, alla consultazione politica più recente.

Alla Camera gli elettori erano 46.505.350, hanno votato 33.923.321 persone, pari al 72,94%. A questi bisogna sottrarre anche le schede non valide, che includono le bianche e le nulle, che sono state 1.082.296. Questo significa che alla Camera i voti validi sono stati 32.841.025, pari al 70,62% degli aventi diritto.

Volendo fare lo stesso discorso per il Senato, gli elettori erano 42.780.033, a fronte di 31.231.814 votanti, pari al 73,01 %. In questo caso le schede non valide sono state 1.021.451, per 30.210.363 voti validi, pari allo stesso 70,62% della Camera.

Posto che secondo il sistema elettorale vigente si prevedeva una maggioranza parlamentare in grado di governare con il 40% dei consensi, questo significa che con il 70,62% dei voti validi si potrebbe arrivare a comporre una maggioranza con il 28,25% delle preferenze sul totale degli aventi diritto.

Questo dal punto di vista teorico; vediamo invece come sono andate realmente le cose prendendo in considerazione l’attuale coalizione di governo.

La lista di maggioranza relativa, il M5S, alla Camera ha ricevuto per l’uninominale 10.732.066 preferenze, pari al 32,68% dei voti validi, ovvero al 23,08% sugli aventi diritto; al Senato, sempre per l’uninominale, il Movimento raggiunge un quoziente molto simile, 9.733.928 preferenze, per il 32,22% dei voti validi e il 22,75% degli aventi diritto.

I dati corrispondenti per la Lega sono alla Camera 5.698.687 voti, rispettivamente il 17,35% e 12,25%; al Senato 5.321.537 voti, per percentuali del 17,61% e 12,44.

L’attuale maggioranza ha, dunque, come voti validi il 50,05% alla Camera, e 49,83% al Senato. Certo, meglio della soglia minima del 40% previsto da legislatori e addetti ai lavori, ma comunque al di sotto del 50% al Senato.

Se andiamo a vedere, invece, le percentuali sugli aventi diritto, scendiamo al 35,33% e al 35,19%, ovvero poco più di un terzo dei consensi.

La scarsa partecipazione, dunque, tassi di astensione sempre più alti, portano la democrazia a diventare, anziché dittatura della maggioranza, dittatura di una minoranza; o, forse, viste le premesse, semplicemente a gettare la maschera.

Perché tutto quello che abbiamo finora analizzato, ci porta a credere che in fondo le democrazie rappresentative siano la facciata che vela gli interessi di gruppi di potere, di oligarchie che si travestono di consenso popolare attraverso la finzione del voto.

Has it ever dawned on the editors that the attitudes of the 70 million projected non-voters may be very consistent with the reality that the concept of voting and electing representatives is basically dishonest and fraudulent. If voting could change anything it would be made illegal! There is no way any politicians can legally represent anyone because he was elected on a secret ballot by a small percentage of voters. He then claims to represent the people who voted against him and even those who wisely chose not to participate in such criminal activity.
Robert S. Borden

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.

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