Titolo: La compagnia delle anime finte
Autore: Wanda Marasco
Editore: Neri Pozza
Collana: Bloom
Prezzo: € 16,50
Wanda Marasco è nata a Napoli, dove vive. Diplomata in Regia e Recitazione all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, è autrice di romanzi e di raccolte poetiche.
Ha ricevuto il Premio Bagutta Opera Prima per il romanzo ‘L’arciere d’infanzia’, Manni editore, 2003, prefazione di Giovanni Raboni, e il Premio Montale per la poesia con la raccolta ‘Voc e Poè’, Campanotto, 1997.
Ha lavorato in teatro come regista e autrice; in questo doppio ruolo ha messo in scena l’‘Asino d’oro’ di Apuleio e, con ‘Quei fantasmi del presepe’, una rivisitazione del teatro di Eduardo, oltre al poemetto ‘Tre donne’ di Sylvia Plath e a ‘Tutti quelli che cadono’ e ‘Giorni felici’ di Samuel Beckett.
I suoi testi sono stati tradotti in inglese, spagnolo, tedesco e greco.
‘Il genio dell’abbandono’ è stato finalista alla prima edizione del Premio letterario Neri Pozza.
‘La compagnie della anime finte’, ultimo romanzo di Wanda Marasco, si è classificato terzo al Premio Strega 2017. Narra una storia dura, la fatica della sopravvivenza nella Napoli del dopoguerra, nei vicoli, nei “vasci” a ridosso della Capodimonte del bosco, dei musei, della città sotterranea. Il vico Unghiato con le sue cento scale per arrivare ai Vergini, un’umanità guasta, nei “guaglioni” che già da piccoli sanno cose che non dovrebbero conoscere.
I registri linguistici utilizzati alternano un napoletano stretto ad un ricercatissimo italiano, curato fin nei minimi particolari. Una prosa quasi musicale, che ti accompagna nella storia, stregandoti e facendoti avvertire tutti gli umori e i sentimenti; sotto la pelle riesci a sentire le diverse sfumature dei sentimenti negativi che ti logorano l’anima.
Un racconto tutto al femminile in cui i personaggi maschili fanno solo da contorno; sono le donne a muovere i fili della vita nelle viuzze, nei bassi, in queste esistenze penose.
L’autrice non si abbandona ai sentimentalismi, in alcuni tratti è quasi crudele, non lascia spazio alla speranza e ai buoni sentimenti. Raffigura la città partenopea descritta dalle scrittrici del Novecento, come Matilde Serao, e le atmosfere miserevoli di ‘Filumena Marturano’ di Eduardo De Filippo.
L’io narrante è Rosa che, davanti alla salma della madre Vincenzina, ne ricorda il passato, sperando così di capire anche se stessa, la sua infanzia traviata e la vita che, in parte, le ha riservato il suo stesso destino.
Sei venuta dal niente e dalla paura, ma’. Hai incontrato un uomo venuto dalla caduta e dalla viltà, quando la Storia aveva già annientato e umiliato gli uomini. In una città dove il mondo migliore era soltanto un sodalizio tra un esercito straniero, il governo nuovo e la malavita.
Ti vedo mentre compri la sottanella americana a una bancarella dei Vergini, insieme a un reggipetto e a due mutande. Dicono che è roba usata mischiata a quella nuova, che arriva al porto in grossi blocchi e da qui la camorra la smercia ai mercati rionali. Tessuti di nylon, poche fibre di cotone, trattamento con amidi e coloranti di cui non sai nulla. Compri l’intimo e il vestiario ficcando le mani nell’ammasso colorato. I colori accesi ti abbagliano.
I rosa, i celesti, i gialli e i rossi che paralizzano insieme a quell’altra luce della città, bianca sui lastrici, azzurra negli archi, a goccia d’olio sopra le facce, fonda e vorticosa lungo i basoli. A volte devi strappare dalle mani di altre femmine la merce che hai scelto. Devi gridare: “L’aggio visto primm’io!” e fulminare con gli occhi quelle che non lasciano la presa.
La sottanella è rosa. Ha il merletto sul petto e sull’orlo finale, due bretelle morbide che scivolano sempre dalla carne. La indossi a ogni appuntamento con Rafele. Quando ritorni a casa la lavi e la metti al sole. Anche ieri l’hai fatto. L’hai lasciata a sgocciolare sull’aia e poi ti sei buttata a terra sul cemento dello stanzone. Hai pianto e raccontato ai fratelli che l’innamorato di Napoli t’ha sfottuta con promesse false e ora se ne vuole scappare. Lo sai che i tuoi fratelli sono cattivi, ma adesso vuoi riparazione e vendetta perché non hai altra difesa.
La vicenda inizia con Vincenzina ragazza che, da Villaricca, paesino povero dell’entroterra partenopeo, va a lavorare a Napoli a servizio in una ricca casa. In città conosce Rafele, il vile e debole figlio di Lisa Maiorana, matriarca di una famiglia borghese, che mai accetterà la giovane nella vita del figlio e che lui non sarà mai in grado di difendere.
I due innamorati vanno a vivere in un piccolo appartamento al vico Unghiato a Capodimonte; povertà e degrado si toccano con mano, prostituzione, usura, contrabbando sono il pane quotidiano della gente dei vicoli.
Vincenzina è tradita due volte da Rafele, prima dalla relazione che lui ha con una collega, poi dalla sua malattia, che la costringe a rivolgersi agli strozzini per poterlo curare. Ma l’uomo ha uno di quei mali che non lasciano scampo e muore, lasciando Vincenzina sola con dei bimbi piccoli da crescere.
Per poter sopravvivere lei stessa diventa un’usuraia e, con gli interessi, spenna i poveri vicini. Cosa ancora più grave, essendo analfabeta, incapace quindi di fare i conti, porta con sé la piccola Rosa perché la aiuti.
La figlia ricorda con amarezza gli anni della sua infanzia, le ingiustizie che l’hanno profondamente segnata e la violenza insita in quel microcosmo umano che la circondava: le “orche”, come lei chiamava le matrone vicine di casa; Mariomaria, il transessuale mai accettato dalla famiglia, che difatti, una volta morto, mette per “scuorno” sulla sua tomba una foto da uomo; Emilia, la ragazza allegra che dopo lo stupro subito non si è più ripresa; il cravattaro che improvvisamente scompare e non si sa bene come e che fine faccia; Annarella, l’amica d’infanzia, che già ad undici anni è costretta a crescere per andare a lavorare in fabbrica.
Un ambiente in cui l’amore è segno di debolezza, il degrado è tale che la violenza è già all’interno del nucleo familiare, gli animi sono avidi e la miseria è palpabile.
Storie terribili, raccontate con un linguaggio reale, che ti tocca nel profondo, un’umanità ferita, senza speranza, in un’epoca non troppo lontana dalla nostra.
La trama
Dalla collina di Capodimonte, la “Posillipo povera”, Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe.
Immergendosi “nelle viscere di un purgatorio pubblico e privato”, Rosa rivive la storia di sua madre: l’infanzia povera in un’arida campagna alle porte della città; l’incontro, tra le macerie del dopoguerra, con Rafele, il suo futuro padre, erede di un casato recluso nella cupa vastità di un grande appartamento in via Duomo; il prestito a usura praticato nel formicolante intrico dei vicoli, dove il rumore dei mercati e della violenza sembra appartenere a un furore cosmico.
È una narrazione di soprusi subìti e inferti, di fragilità e di ferocia. Ed è la messinscena corale di molte altre storie, di “anime finte” che popolano i vicoli e, come attori di un medesimo dramma, entrano sulla ribalta della memoria: Annarella, amica e demone dell’infanzia e dell’adolescenza, Emilia, la ragazzina che “ride a scroscio” e torna un giorno dal bosco con le gambe insanguinate, il maestro Nunziata, utopico e incandescente, Mariomaria, “la creatura che ha dentro di sé una preghiera rovesciata”, Iolanda, la sorella “bella e stupetiata”…
“Anime finte” che, nelle profondità ipogee di una città millenaria, sono segnate tutte, come Vincenzina e come la stessa Rosa, da un guasto che attende una riparazione. Riparazione che, nelle pagine finali del libro, giunge inaspettata ad accomunare Rosa e Vincenzina in un medesimo destino.
Dopo l’acclamato ‘Il genio dell’abbandono’, Wanda Marasco torna a raccontare Napoli e i segreti della sua commedia umana con un romanzo dalla lingua potente e poetica, così materica e allo stesso tempo così indomitamente sottile.