Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche.
Jean Paul Sartre
La condizione precaria dell’uomo è tale che ci sfugge il senso reale della vita. Siamo ortodossi nel male e ricettivi nell’accogliere energia negativa. Fautori del delirio egoistico e del disorientamento. Siamo consapevoli che la verità è un biglietto di sola andata e ci trasciniamo bagagli di cose superflue che ci fanno arrivare stanchi al traguardo. Viviamo come se fosse l’eterno nella miserabile iper-comprensione che l’esistenza è un dado nelle mani del destino.
Piccoli sciagurati filosofi del niente, inteso come vuoto e mai come caos o come progenitore del pensiero nichilista. Cerchiamo situazioni inedite, nel perenne disequilibrio tra tempo sociale e tempo individuale, con il secondo termine incorporato nel primo, producendo così quell’affanno perenne, della continua sovrapposizione e interscambiabilità tra vita e lavoro.
La solitudine del pensiero è un mistero che ci può aiutare e dare un deciso contributo al percepire intimo dell’esistenza. È un segreto confessionale che svuota il furore inutile che spesso ci incatena ad occulte e rigide manovre che ci auto-imponiamo nell’inconsistenza del nostro essere.
Sant’Agostino nel suo Commento al Vangelo di Giovanni scrive:
La nostra anima ha bisogno di solitudine. Nella solitudine, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio.
E con il silenzio interiore riusciamo ad avere la capacità di ascoltarci, di comprendere l’essenza del nostro vivere. Una intima preghiera con il divino interiore, in una metamorfosi che ci libera delle incognite e degli artifici che il quotidiano ci addossa e che ci avviluppa.
Durante la pandemia le nostre città erano meravigliosamente e terribilmente silenziose. C’erano strade senza gente e senza traffico. Era inquietante ma, allo stesso tempo, liberatorio. In quel silenzio di accesa solitudine, dove l’assenza della voce della strada sembrava richiamare un’agonia, il silenzio diventava attivo, indicava confronto, ricerca, introspezione, dialogo con la nostra voce interiore. Era un pilastro su cui muovere l’intera impalcatura della nostra anima.
Oggi il silenzio è un linguaggio insuperabile perché comprensivo a pochi eletti: ci sono evocazioni e scontri frontali, conquiste e compassione. Il silenzio è l’interpretazione dei nostri fantasmi, l’abbandono fidato, il porto delle nostre passioni. Per i saggi è da sempre considerato come un bene prezioso ed infinito, perché profondo e divino.
Pensiamo ad Arpocrate, dio egizio figlio di Iside e Osiride, nota personificazione dell’idea del silenzio iniziatico, ammirato nei primi secoli della nostra era in Alessandria d’Egitto, nell’ambito della creazione di scuole iniziatiche e della formulazione di nuove dottrine filologico – teologiche, al fine di giungere alla realizzazione spirituale, alla conoscenza ed alla salvezza.
Pensiamo alla Tacita dei romani: assurta nel pantheon già in epoca arcaica a divinità rappresentata con il dito sulle labbra ad intimare il silenzio e che rivestì il significato di “far tacere le malelingue”. Ed arriviamo all’alchemico “regressus ad uterum”: un silenzioso ritorno simbolico ad un particolare stato primordiale dell’essere che accomuna ogni uomo nell’inconscio collettivo.
Perché nel silenzio l’uomo ha il dovere di conoscere, sentire ed essere responsabile di tutte le proprie emozioni. Esse non devono essere semplicemente represse, poiché, così facendo, si otterrebbe l’unico effetto di “comprimerle” in qualche zona recondita della propria psiche, dalla quale potrebbero emergere quando meno ce le aspettiamo. Vanno invece sublimate, cambiate e trasmutate in sentimenti più elevati. E il silenzio aiuta a fortificare questi passaggi di introspezione, di catarsi e di illuminazione.
Il monaco trappista Thomas Merton sosteneva come il silenzio sia un basilare aiuto per ritrovare il vero Io, di contro al falso Io che il mondo, nella sua confusione e iper – stimolazione, ci mette sempre davanti raggirandoci. Un Io vero che unisce anima e corpo recuperando i sensi. Solo con l’ascolto e con il silenzio possiamo riscoprire l’autentica bellezza che ci collega alla radice del nostro essere. Sono espressioni e valori che si scoprono anelli della stessa catena.
Nel silenzio amiamo e nel silenzio guardiamo un paesaggio e una persona e un quadro. Ascoltiamo musica e scriviamo quello che emerge da questa contemplazione.
La condizione principale del silenzio è la capacità di sapere ascoltare. È la grande bellezza.
In questa società iper – stimolata ad ogni genere di disorientamento, connessa ovunque e con chiunque, siamo vulnerabili e costruiamo difese di sabbia. Questa società fagocita la capacità di vedere lontano e di sentire in profondità: rischia di lasciarci senza fiato, senza quella qualità tutta umana che ci consente di essere effettivamente presenti a noi stessi.
Dall’ascolto e dal silenzio ricaviamo il sacro della bellezza: ci immettiamo in una semplice ma dinamica e corposa educazione dei sensi che arriva dolcemente a divenire educazione dell’anima. La sovra – stimolazione e il sovraeccitamento dei sensi, al contrario e paradossalmente, ci fa perdere la sensibilità. Ci rende immuni al sacrificio e al dolore, alla tenerezza e alla comprensione: automi dallo sguardo smarrito e dal pensiero fissato ad una logica meccanica sterile.
La sensibilità di saper ascoltare e perdersi in quel silenzio che molto dice e che nulla toglie ci eleva e ci consente un’immersione nella bellezza e nell’incanto della mente e del cuore. Saper andare lentamente, ma anche sapersi fermare, fare silenzio, per ascoltare sono qualità così rare da ritrovare anche con i bambini e i ragazzi, resi più fragili proprio da questo ambiente che, pur ricco di opportunità e sollecitazioni, nondimeno impedisce loro di decifrare, organizzare, padroneggiare accuratamente tanto il proprio mondo interiore quanto quello esterno.
La conoscenza contemplativa implica una preparazione per affinare i sensi, le nostre capacità percettive, che allora, tramite l’esercizio, diventano capaci di apprezzare, osservare, sentire. E capire chi siamo.
Dobbiamo imparare a difenderci senza distruggere ciò che è buono e produttivo: la nostra conoscenza non è solo competenza. Saper sfruttare al meglio la visione strategica di una società che vede nel Big Data l’essenza del tutto e del sapere è imparare a distinguere il disordine del web, l’effetto Babele che ne deriva, dall’ordine interiore che percepisce la realtà, la filtra e la rinnova secondo le logiche dell’emotività interna.
Guardiamo a Google: il suo successo è il frutto della necessità o della volontà di classificare e di sapere. Il silenzio dovrebbe essere il nostro principale motore di ricerca: in esso stabilire i paradigmi della nostra analisi e i parametri delle scelte che faremo.
Su quello schermo buio possiamo scrivere di noi, in quell’abisso non ci neghiamo e, come una esperienza mistica, ai confini del divino, ci conosciamo.
Dio è il silenzio dell’universo e l’uomo il grido che dà senso a questo silenzio.
José Saramago
La bellezza del silenzio è un’esperienza che frantuma la monotonia del tempo e fa scuotere tutto l’uomo, tanto la sua dimensione corporea e sensibile, quanto quella razionale e spirituale. Riflettere sul silenzio, a partire dalla sua apparizione nel vissuto di ciascuno, obbliga a capire il nesso tra il corpo e la mente, tra i nostri cinque sensi e la nostra dimensione cosciente e razionale che esprime giudizi e sentimenti.
La manifestazione del silenzio apre alla domanda circa la verità e la precarietà di ciò che vediamo, sentiamo, ascoltiamo. L’esigenza del silenzio, innata in ogni uomo, può sfidare e mettere in discussione le pratiche etiche e politiche delle comunità umane. Esso sconvolge l’animo, come il sublime, il brutto, il grottesco…
Il silenzio ci ferisce e ci richiama, attraverso una vibrazione inequivocabile, al nostro destino ultimo, al problema inaggirabile della vita e della morte. Perché dobbiamo capire che esso è la testimonianza di una bellezza in atto che ci ha avvinto.
È l’esito della vittoria della bellezza sulle nostre chiacchiere. È la dimensione privilegiata nella quale la bellezza è inviata a farsi avanti, aprendoci nuovi varchi e regalandoci un futuro più intimo alle nostre esigenze reali. È uno spazio dell’anima, una proiezione che sfugge ad ogni omologazione.
Spesso un prolungamento della nostra mente, la sua salvaguardia ai mali del vivere.
Una mente silenziosa e solitaria è una mente che rinasce in ogni istante. Non nuova, poiché procede dall’esperienza della pratica coltivata, e non vecchia, perché non costruisce opinioni e stereotipi con i quali misurare il mondo.
Una mente silenziosa non è rinchiusa in se stessa ma in connessione profonda con il contesto: poiché non giudica, è maggiormente in grado di capire, è più spontanea e capace di meraviglia.
Una mente solitaria non è sola, ma predilige di isolare il presente dal passato e dal futuro per essere ed esserci pienamente, in modo che il tempo sia vissuto in profondità e seguiti a muoversi con spontaneità, dentro una serie di eventi e scelte delicate, agite senza condizionamenti.
Per qualcuno è anche la condizione ambientale definita dall’assenza di perturbazioni sonore, l’assenza di ogni forma di rumore, di suono o di voce: io voglio pensare che esso è la possibilità di esserci e di non esserci. Una meravigliosa assenza al mondo e al contempo l’essere ricettivo a se stesso. Con il silenzio il mondo è fuori dalla porta della nostra anima e noi guardiamo dentro al suo abisso nascondendo nelle mani le chiavi.
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.