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Ipotesi umane

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Ipotesi umane


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Dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane.
Friedrich W. Nietzsche 

Esiste un versante della letteratura fantastica particolarmente cupo e crudele, che immagina la possibilità di un mondo ancor peggiore di quello reale: disegnando il quadro senza speranza di società dominate da regimi violentemente oppressivi e totalmente alienanti, oppure toccando l’estremo limite di un’umanità ridotta a pochi superstiti, in fuga da spaventose catastrofi.

Questo genere, chiamato distopia in opposizione alle rosee prefigurazioni dell’utopia, è oggi frequentatissimo, sia nella letteratura sia nel cinema e nei fumetti.

Quello della distopia è un topos letterario – filosofico particolarmente caro alla contemporaneità.

A prescindere dalle forme che può assumere, totalitaria, catastrofica, cibernetica, la distopia non deve però essere considerata un semplice capovolgimento dell’utopia, bensì un suo tradimento, una paradossale evoluzione di segno negativo che semina macerie proprio nel tentativo di realizzare le magnifiche sorti e progressive dell’umanità.

In virtù delle loro possibilità estetico – narrative, le realtà distopiche sono diventate oggetto d’indagine privilegiato da parte dei nuovi linguaggi audiovisivi, dando vita ad un fenomeno culturale transmediale e polimorfico che, lungi dall’essere frutto di una mera fascinazione apocalittica, ci invita a riflettere sulle sue potenzialità catartiche.

Grazie alle sue diverse e variegate manifestazioni, ha messo radici negli ambiti culturali più disparati, divenendo un’inesauribile fonte d’ispirazione per la cosiddetta pop cultura.

Si tratta, insomma, di un paesaggio inevitabile del nostro immaginario collettivo attuale, che evidentemente non riesce a pensare altro futuro che non sia la ‘fine del mondo’.

Ma che significato ha la distopia?

È un tentativo di indovinare come andranno veramente le cose?

È un ammonimento per convincerci a cambiare rotta?

È uno sberleffo alla faccia del genere umano che piange lacrime di coccodrillo dopo aver inquinato e distrutto un intero pianeta?

O è un modo, invece, per saturarci con le immagini ‘finte’ del disastro, così da abituarci a sopportare l’orrore di quelle vere?

Partiamo da un punto: è difficile sbagliare le previsioni a brevissimo termine, perché il futuro immediato è già qui. Meno coinvolgente il vaticinio su ciò che capiterà nel lungo periodo, quando non ci saremo più.

Così la vera sfida è centrare i pronostici a medio termine.

L’hanno persa con disonore coloro che appena l’altro ieri facevano a gara a rassicurarci sulla ripresa dell’economia mondiale. Pare che non sia così o, se lo è, va a singhiozzo.

Il primo a pronunciare la parola distopia fu, il 12 marzo del 1868, l’utilitarista John Stuart Mill. Non occorre essere storici della filosofia per intuire dove va a parare l’utilitarismo, allievo dell’occasionale proto-distopico Jeremy Bentham il quale progettò un carcere che potesse essere sorvegliato da una sola sentinella.

Tale trovata doveva incutere enorme soggezione ai carcerati: se uno solo basta a controllarci…, pensò Bentham che avrebbero pensato i poveri reclusi, col seguito della frase che solo lui potrebbe esprimere al meglio e che, infatti, espresse nel suo ‘Panopticon’, al quale lavorò vent’anni.

La parola, dunque, nata in epoca sommamente distopica di distopia presente, l’infernale Rivoluzione Industriale: grande e macchinosa conquista per la quale, per il primo centinaio d’anni, alcuni dovevano pur soffrire un poco, era quasi scomparsa.

Successivamente qualcuno ha scritto un libro distopico, dopo mezzo secolo che non se ne scrivevano, salvo quelli di fantascienza che però tutti chiamavano per l’appunto ‘di fantascienza’, un libro che subito piacque, oppure fu ideata una serie, poniamo ‘Il racconto dell’ancella’ di Margaret Atwood, prima romanzo e poi film, poi serie, poi graphic novel, la parola è diventata quasi comune.

Infine, nella «distopia tecnologica», si possono ricondurre tutti quei romanzi in cui la scienza e la tecnologia mettono in pericolo, cercano di dominare o tentano di distruggere l’umanità.

Un filone, quest’ultimo, che nato con Wells e Huxley, prosegue con Dick, ed esattamente come la «distopia ambientale» rappresenterà il maggior campo d’azione negli anni a venire.

La distopia, quindi, è l’utopia al contrario, com’è noto. Nel linguaggio comune, la distopia è intesa come un’inversione dell’utopia, una sua totale negazione. Pertanto, se l’utopia descrive i contorni di una società ideale, superiore e più giusta, la distopia delinea i tratti di una società spaventosa, inferiore e più ingiusta.

Tuttavia, piuttosto che essere una negazione dell’utopia, la distopia potrebbe essere la sua essenza. Ogni distopia, infatti, è un grido d’allarme contro lo status quo, è una denuncia morale nei confronti di una realtà avvertita come oppressiva e disumana. Per evitare che il passato e il presente siano destinati a trasformarsi in un incubo futuro, la narrativa distopica agisce in maniera preventiva, mettendo in guardia i lettori.

E fino alla nuova voga della parola era detta così: utopia negativa. Il malinconico del gioco o della moda, o anche solo della circostanza, è che forse non vogliamo nemmeno più inventarci un futuro vivibile.

Nemmeno per finta ci azzardiamo a pensare un avvenire in cui si possa vivere seppure incredibilmente, inverosimilmente come nelle topie con la u. Le quali però, purtroppo, erano già alquanto distopiche.

Si figuravano un futuro modellato su un vago, rimpianto o inesistente passato, utopico per alcuni e involontariamente distopico, cioè dispotico – per altri, di solito la maggioranza.

L’utopista è (era) un moralista preoccupato del presente, che si ingegna di progettare un futuro secondo lui felice. Ad attestare della serietà dell’intenzione bastano in nomi: More, Campanella, Bacon.

L’utopista, insomma, modella un avvenire diverso dal presente. Il distopista prende il presente come punto d’appoggio e lo peggiora a piacimento. Eppure, sembra strano, ma la distopia è in mezzo a noi e in certe epoche, come quella che stiamo ancora attraversando, quella pandemica, è stata ancora più presente, ma come?

Innanzitutto, essa si colloca assai bene nel discorso filosofico, essendo legata al divenire – o movimento – del mondo sensibile, concetto di Aristotele, il quale disse che il divenire è nato all’inizio del tempo e senza il tempo non esisterebbe il divenire.

E poiché il divenire, appunto, corre assieme al tempo, ogni attimo che passa diventa passato dopo essere stato presente e non sapremo come sarà l’attimo dopo che è ancora futuro.

Il passato diventa storia, perché, dice Aristotele, possiamo narrarla in quanto ormai conosciuta; invece, il divenire integra il futuro e nessuno può narrarlo, solo prevederlo o pensarlo.

È il post, ciò che dopo, frutto del divenire; mentre è ante ciò che prima è stato e che ormai è immutabile. Troviamo quindi una cristallizzazione del passato, che condiziona il presente e il futuro.

E l’uomo, in tutta la sua storia, è sempre stato curioso del suo futuro, sebbene gli incutesse paura, in quanto ignoto è il momento della morte. Pensando al futuro innanzi a noi, sia esso relativo a noi ovvero riguardante i fatti sociali, politici, umani del mondo esterno, siamo portati a vederlo dal nostro punto di vista e più è ridotta la nostra mentalità, sino ad arrivare all’ottusità, più penseremo a un futuro ancorato alle nostre idee.

Nel caso della distopia, l’individuo esprime la parte più pessimista e catastrofista di se stesso, in cui il negativo primeggia sul positivo, architettando un futuro traviato, che al suo massimo livello è espresso con una devianza tale avvicinare i due universi paralleli del futuro e del futuribile, questo futuro che non potrà mai verificarsi in quanto parte da basi storiche e scientifiche inesistenti.

La visione distopica, quindi, attrae la parte più feroce del pessimismo, volgarmente detto pessimismo cosmico, in quanto il soggetto ritiene che ciò che è stato, il passato, sarà sempre migliore del futuro.

Personalmente, penso che l’estremizzazione di qualunque fatto umano o naturale che potrebbe accadere sia frutto di contesti culturali scadenti, che hanno la loro massima espressione nell’analfabetismo funzionale, perché l’intervento della ragione, supportato dalla conoscenza e dal rigore scientifico, a priori esclude qualsiasi eccesso, in quanto nulla potrà mai succedere se la basi stesse degli assunti sono impossibili.

Quindi, si potrà ipotizzare un futuro peggiore, che però non sarà mai, derivato da una distorta e relativistica visione della realtà.

Il nostro pensiero di una felicità futura è sempre chimerico: ora c’inganna la speranza, ora ci delude la cosa sperata.
Arthur Schopenhauer

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.