Il 21 giugno di ogni anno si celebra la Festa della musica, nata in Francia nel 1982 per poi diffondersi in tutta Europa, per ricordare l’importanza dell’arte nella vita di tutti. Quest’anno, invece, le cose sono state un po’ diverse.
Infatti, anche il settore musicale, come tanti altri in Italia, paga le conseguenze della pandemia da Covid-19, con le relative disposizioni contro gli assembramenti, sul distanziamento sociale e tutta la crisi che ne è conseguita per i mancati introiti, per festival saltati, con numerose polemiche sul rimborso o meno dei biglietti già venduti, come è successo con il concerto annullato di Paul McCartney.
Come si è visto spesso sui social, molti artisti famosi hanno pubblicato delle loro foto con dei cartelloni con su scritto, con tanto di hashtag, #iolavoroconlamusica, per ricordare tutto il mondo sotterraneo che è rimasto indietro ma che rappresenta le fondamenta solide che sostengono tutto il reparto e permettono, con il loro lavoro, lo svolgimento degli eventi.
Alle spalle di questa “non celebrazione” c’è un movimento venutosi a formare proprio in questo periodo grazie alla volontà di diversi professionisti dei vari settori, uffici stampa, etichette discografiche, che, grazie al coordinamento di Stefania Giuffrè, manager di artisti importanti come Levante, hanno formato un’associazione per rivendicare una voce in Parlamento che prenda in considerazione le loro richieste.
Questo movimento prende il nome de La musica che gira; che ha, poi, avanzato diverse proposte che si possono tranquillamente consultare sul sito:
1) Garantire l’accesso agli ammortizzatori sociali a tutti i professionisti della cultura che operano in campo musicale, con particolare attenzione ai liberi professionisti e ai lavoratori con contratto di lavoro intermittente. Fornire un sostegno economico di emergenza ai professionisti della cultura, in particolare a quelli indipendenti, nonché alle imprese culturali, ad esempio sotto forma di agevolazioni fiscali, prestiti, micro-crediti, risarcimento delle perdite e costi non recuperabili.
Oppure
2) Maggiore supporto alle attività imprenditoriali del settore musica dal vivo quali club e organizzazioni di eventi, Festival, rassegne, etc..
Seguono richieste varie e più dettagliate grazie al lavoro di avvocati ed esperti di diritto dello spettacolo.
Tutto molto bello, direte voi. Tutto molto giusto, direbbero in tanti. Ma, c’è sempre un “ma” in ogni cosa, perché ogni medaglia ha sempre due facce.
Quello che abbiamo descritto fino ad ora è la facciata superficiale, quella del politically correct, ovvero abbiamo raccontato il mondo che si vede in superficie. Artisti famosi solidali con gli altri operatori più piccoli, unità di intenti, coscienza sociale, ecc.. Ciò che non abbiamo ancora raccontato, è quanto emerge appena la patina dorata di questo mondo fittizio viene grattata.
La situazione viene descritta molto chiaramente dal giornalista Paolo Romano in un suo recente articolo sul blog de ‘L’Espresso’:
Una protesta (quella del 21 giugno ndr) che dovrebbe, nelle intenzioni, scuotere il Governo in fase di discussione degli emendamenti al Dl rilancio. Un hashtag. E qui ci vorrebbe una pausa alla De Luca, un hashtag. Peccato che la protesta arrivi, ma lo sanno tutti quelli che operano da quelle parti, quando i buoi sono scappati da un pezzo dal recinto e mica solo per colpa del Governo. Troppo facile.
Il punto è che, fiumi di parole, cartelli, post, anime gentili e “io ci metto la faccia”, fino a ieri hanno dormito serrando strettissimamente gli occhi di fronte all’evidenza di una categoria che non era una categoria, irrappresentabile da qualunque forma sindacale o parasindacale, perché frantumata in rivoli di progetti e idee diverse e con un tasso di litigiosità e astio interni raramente visti.
I grandi nomi si sono fatti la loro strada lastricata di copertine patinate e megaconcerti, i medi hanno vivacchiato sull’esistente, i piccoli hanno raccolto le briciole al grido piagnucoloso di “siamo più bravi, ma più sfigati e intellettualmente onesti”.
Nessuna solidarietà effettiva, nessun serio tentativo di rendere collettive in un corpo intermedio le istanze del settore: chi ha chiuso gli occhi rispetto al trattamento infame di operatori da palco strapazzati dagli organizzatori, chi non s’è voluto mescolare per uno snobismo ridicolo d’approccio, chi ha provato a raccoglier firme solo per salvare sé stesso e magari fare la star del festival del quale era stato nominato direttore artistico…
Queste sono dinamiche che al fruitore di un concerto, ovvero colui che si reca ad ascoltare dal vivo il suo artista preferito, probabilmente nemmeno interessano, ma che, invece, dovrebbero man mano iniziare ad interessare l’opinione pubblica, come sta succedendo con i lavoratori a nero nei campi di raccolta.
Fatto sta che, come spesso accade, il nostro peggior nemico siamo noi stessi. Infatti, come suggerisce velatamente il giornalista Paolo Romano, questo è un settore che per anni è sopravvissuto grazie al lavoro sommerso.
Non possiamo certo sostenere che l’Italia, a differenza di qualche altra nazione europea, abbia a cuore il settore culturale e quindi che sia un club o un festival, quando si organizza un concerto o un evento si va incontro a delle tasse statali abbastanza ingenti.
Tutto questo però non deve essere un alibi per i professionisti della musica o per i club per avere la scusa di lavorare a nero, perché, ad essere poi onesti del tutto, non sono spese così diverse da quelle che ogni altro tipo di impresa affronta, o che lavoratori con “busta paga” sostengono.
Stefania Giuffrè, che come ricordiamo è la fondatrice del movimento La musica che gira, ha rigettato le accuse di una ipocrisia riguardo il tempismo di questa volontà di unire tutti i professionisti dei vari settori per chiedere dei cambiamenti al Governo:
Non vi è ipocrisia e anzi, credo sia normale che situazioni “traumatiche” o straordinarie portino a un nuovo modo di pensarsi e vivere come persone e professionisti. Quindi il nostro tempismo non è ipocrita, è guidato dai fatti.
Peccato però che sul sito SOSMUSICISTI, un movimento iniziato nel 1995 e poi rifondato nel 2012 per unire sotto un’unica bandiera tutti i lavoratori del settore, la speranza di formare un sindacato per i musicisti va a farsi benedire perché come si può chiaramente leggere sulla loro pagina:
La scarsa presenza sindacale è essenzialmente dovuta al sommerso.
Niente posto fisso (niente trattenute) = inefficienza sindacale.
Nel settore lavorativo dei musicisti non riconducibili a “busta paga” (cioè la quasi totalità), la presenza sindacale è pressoché inesistente. Sarebbe troppo semplice attribuirne la causa ai musicisti stessi, in verità è proprio il settore che ha delle peculiarità che rendono molto difficile costituire associazioni di categoria.• In primis: il “sommerso dilagante” che, come accennato nel sottotitolo, vanifica ogni tentativo di sottoscrizione (economica) per sostenere le inevitabili spese organizzative.
Come si fa a fare “iscritti” tra lavoratori “in nero”, lavoratori “invisibili” agli enti di pertinenza, lavoratori non iscrivibili ad alcun registro per il semplice fatto che il “registro”… non c’è?
• A seguire, la scarsa coesione tra gli artisti stessi. Anche questa non è una colpa, ma una conseguenza del mestiere: è “fisiologica”.
Tutto questo accade da almeno 25 anni.
Quindi, ricapitolando: lavoro in nero, scarsa coesione tra lavoratori dello stesso settore che per anni ed anni hanno alimentato questo segmento, tutto questo all’improvviso dovrebbe scomparire perché la pandemia e la conseguente emergenza, avrebbero reso più responsabile un settore che per anni è sopravvissuto quasi esclusivamente per il lavoro a nero sulla pelle di lavoratori sfruttati o con vari stratagemmi, spesso non proprio completamente legali?
Ho le mie riserve. Le stesse che avevo palesato ad intimi amici quando qualcuno, ad inizio quarantena, gridava ai quattro venti o sui social che questo evento traumatico ci avrebbe reso migliori, trovandomi, invece, completamente d’accordo con il buon vecchio Guccini che sosteneva il contrario.
Per concludere posso affermare a cuor leggero che per ideologia sono vicino ai lavoratori, che per passione spero che questo momento venga superato e che lo Stato si adegui ai modelli europei culturali, soprattutto dal punto di vista degli incentivi, ma sono anche contrario, per etica personale, a salvaguardare e a giustificare il lavoro a nero, una evidente ipocrisia atta ad aiutare per lo più i “poteri forti” di questo settore, che soprattutto negli ultimi anni, hanno continuato ad impostare un mercato al rialzo mettendo in ginocchio i club ed ogni luogo di aggregazione per l’impossibilità di sostenere i cachet richiesti dagli artisti, anche se solo emergenti.
E sono soprattutto colpevoli di aver ucciso la musica in quanto arte, sempre in nome del mercato, che mai, penso, abbia attraversato un momento così buio, culturalmente parlando.
E qui mi riallaccio di nuovo a Paolo Romano e alle sue conclusioni:
Quello che invece accade (e accadrà con furia maggiore) è che le sorti dei musicisti le deciderà il mercato. Amaro, amarissimo, ma è così e non può esser che così in un sistema a capitalismo finanziario.
Saranno forse aiutati i grandi Festival, le kermesse, i circuiti maggiori e magari qualche soldino arriverà per il jazz o il folk o vattelappesca. Ma sarà un aiuto talmente inferiore rispetto alla domanda da rendere la crisi di quel settore, appunto, irreversibile, tanto da consigliare – a chi ancora può – di iniziare a girarsi intorno, alla ricerca di lavoro in settori diversamente produttivi.Eh ma l’arte… eh ma la bellezza… eh ma le idee. Qui da sempre si difendono e si difenderanno quei princìpi, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è colpevole almeno quanto ignorare la forza prepotente e rivoluzionaria dell’arte e della musica.
Concludo con una citazione prese dalle parole del 1980 del maestro Battiato:
L’impero della musica è giunto fino a noi
Carico di menzogne
Mandiamoli in pensione i direttori artistici
Gli addetti alla cultura….
Autore Marco Trotta
Marco Trotta è nato a Napoli nel 1981. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico-Artistico alla S.U.N. con una tesi sul restauro del Duomo di Napoli. Ha conseguito un master regionale di “Rilievo architettonico per i Beni Culturali”. Restauratore di beni culturali e poi catalogatore per la Soprintendenza di Caserta. Attualmente è anche redattore per Campaniarock.it e per la prestigiosa Art apart of culture.