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Io sono Nessuno

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Nessuno


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La percezione della propria alterità, da Omero alla Dickinson

I’m Nobody! Who are you?
Are you – Nobody – too?
Then thereìs a pair of us!
Don’t tell! they’d advertise – you know!

How dreary – to be – Somebody!
How public – like a Frog –
To tell one’s name – the livelong June –
To an admiring Bog!
Emily Dickinson

Quante volte abbiamo ascoltato, e non solo in TV, frasi come Lei non sa chi sono io, o equivalenti?

O comunque assistito a comportamenti e atteggiamenti che ricordano l’io so’ io del Marchese del Grillo, interpretato da un impareggiabile Alberto Sordi.

 

Frase a sua volta citazione di un sonetto di Gioacchino Belli.

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
Mannò ffora a li popoli st’editto:
“Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Giuseppe Gioachino Belli – Poesie Romanesche

Atteggiamenti incoraggiati ed amplificati dai social, dove tutti si sentono autorizzati a roboanti proclami, a parlare a nome di città o di interi popoli, a prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno, generando, in definitiva, soltanto rumore.

Ma la questione non riguarda solo i social, Internet, in generale, ha reso orizzontali i mezzi di comunicazione di massa, prima concentrati nelle mani di poche emittenti, oggi alla mercè di qualsiasi imbecille, per citare Eco.

Tutti opinion maker, opinionisti, influencer.

E ormai basta grugnire in qualsiasi desolata e desolante Web TV per definirsi personalità del mondo della comunicazione.

Un microfono, una webcam e si è pronti a fare concorrenza alle multinazionali della comunicazione.

CNN, scansati.

Ma la stessa cosa la possiamo dire dell’arte.

Ce ne siamo occupati già in precedenza; se tutto è arte e tutti possono fare arte allora nulla più è arte.

Sempre il digitale.

Nessun editore mi pubblica la schifezza che ho scritto?

Sicuramente non è perché ho scritto una schifezza, sono un genio incompreso.

Allora che faccio?

Mi pubblico da solo, magari in digitale, meglio se con una piattaforma nota che mi dà la possibilità di darmi un alone di pseudo autorevolezza.

Mi auto produco e mi auto proclamo scrittore.

Mi infilo in qualche circuito di concorsi fai da te.

Anzi, creo io stesso un premio letterario.

La giuria? Mamma… da piccola scriveva dei bei temi. Non ha finito le elementari, ma è perché la scuola italiana non valorizza i talenti.

Mia cugina… una volta ha scritto un articolo che è stato pubblicato dal giornalino della parrocchia.

Tutte autorità della cultura e della comunicazione.

Però non mi posso premiare io solo.

Per rendere la cosa autorevole devo dare dei riconoscimenti anche a scrittori di prestigio.

Come si chiamava quello lì bravino… Shake qualcosa.

E magari premio pure qualcuno che fa qualche premio a sua volta, così può ricambiare il favore.

La premianza di cui parla Lucia Stefanelli Cervelli, scrittrice ed intellettuale che, purtroppo, non gode della ribalta che meriterebbe.

Premio pseudo-letterario, il cui scopo era premiare se stesso.
Lucia Stefanelli Cervelli – L’occhio fisso

Così faccio incetta di premi.

Secondo posto al concorso Scantinato d’Oro. Il primo lo ha vinto un certo Marquez. Sicuramente un raccomandato.

Menzione d’onore della giuria al concorso Scrittore anche tu.

E così via.

Facile sarcasmo a parte, ormai siamo invasi da semianalfabeti che si firmano come scrittori ed esperti di comunicazione.

Di CV che ti sembrano quelli di un genio, per cui ti chiedi come mai poi ti scrivono l’Italia se desta, provando a citare l’inno nazionale o ti trovi di fronte un totale imbecille quando ti capita di incontrarne.

Dal chi sono io del Marchese del Grillo a quello dei tantissimi potenziali premi Nobel per la letteratura.

Sia chiaro.

Alla nobiltà di nascita preferiamo di gran lunga quella del genio.

Principe, ciò che siete, lo siete in occasione della nascita. Ciò che sono, lo sono per me. Principi ce n’è e ce ne saranno ancora a migliaia. Di Beethoven ce n’è soltanto uno.
Ludwig van Beethoven – Biglietto indirizzato al principe Lichnowsky nell’ottobre del 1806

Naturalmente non è necessario essere Beethoven, ci mancherebbe, ma ci si auspicherebbe almeno un poco di sostanza.

Tornando ai versi della Dickinson, ci viene da chiedersi se effettivamente non sia meglio essere Nessuno.

Così come dice di chiamarsi Ulisse, quando Polifemo gli chiede il nome.

Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano
madre e padre e tutti quanti i compagni.
Omero – Odissea

Stratagemma che salva la vita allo stesso Ulisse.

Ma fermarsi a questo sarebbe sottovalutare la portata di questo passaggio del Libro Nono dell’Odissea.

Omero voleva mettere in evidenza solo la scaltrezza del protagonista?

O c’era altro?

Anche l’interpretazione che vede Polifemo come simbolo delle popolazioni barbare ci sembra restrittiva.

Posto che per i greci barbaro era chiunque non parlasse greco, ogni straniero la cui lingua era paragonata ad un balbettio.

L’origine del termine è evidentemente onomatopeica e significava letteralmente balbuziente.

Ma Polifemo parla greco.

La sua alterità non deriva dal linguaggio, ma dalla sua essenza.

Mostro con un solo occhio, ma dai tratti antropomorfi, gigante che mangia esseri che gli assomigliano, che si ciba della loro carne, che si afferma per la sua forza bruta.

Se l’umanità è quella che caratterizza il ciclope allora è meglio non farne parte, meglio essere Nessuno.

Passando alla settima arte, ci viene in mente un film di Jaco Van Dormael del 2009, Mr. Nobody.

Il protagonista, Nemo Nobody, nel 2092 è l’ultimo mortale sulla terra, visto che la tecnologia ha portato l’umanità a sconfiggere la morte attraverso un processo di continua rigenerazione cellulare.

Si tratta di un futuro distopico, in cui una forma di transumanesimo ha creato una società estremamente frammentata, senza meccanismi di coesione.

Emblematico già il nome, un doppio Nessuno, espresso in latino e in inglese.

Ma non si tratta di un annullamento, anzi.

Nobody è un poco come il Matto dei Tarocchi, l’Arcano Maggiore numero 0, che non significa assenza, ma il Caos primordiale inteso come coincidenza di ogni possibilità.

Infatti, il film gioca molto sulla contrapposizione tra predestinazione e libero arbitrio.

Gli angeli dell’oblio non appongono il segno della dimenticanza sul labbro di Nemo, che dovrebbe cancellare anche la conoscenza del suo destino, condannandolo a ricordare tutto, presente, passato, futuro, anche quello che è accaduto prima della nascita.

Ma, invece di recitare un copione già scritto, il protagonista ricostruisce, sotto ipnosi regressiva, ben 7 linee di tempo e di esistenza legati ad una serie di bivi, a partire dalla prima scelta: vivere con la madre o il padre quando questi si separano.

A cascata seguono tutta una serie di cose che sarebbero accadute o meno. Una serie di Sliding doors che lo portano a conoscere una ragazza oppure un’altra, ad avere un incidente o meno, in un effetto farfalla che da una singola scelta, che potrebbe anche sembrare piccola, porta a conseguenze enormi.

Ma, anche alla luce del finale, che non rivelo, per non guastare la visione a chi volesse vederlo, possiamo fare anche un altro tipo di connessione.

Dal Nessuno omerico al Nobody cinematografico.

Possiamo vederci un rifiuto di modelli di umanità. Per motivi diversi.

La violenza di Polifemo da un lato, un oltre uomo immortale e isolato dall’altra.

A loro modo Ulisse e Nemo nel loro essere nessuno si definiscono come esterni a questi due modi di essere, anche se nella loro scelta non possiamo vedere una tensione morale, o una presunzione di superiorità.

Si tratta, molto più semplicemente, di una mancata identificazione, di un non riconoscersi.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Eugenio Montale – Ossi di seppia

Da verso in verso, torniamo alla Dickinson, la poetessa statunitense che in vita aveva pubblicato pochissimo. Un poco per scelta, un poco per qualche rifiuto da parte degli editori del tempo che non erano ancora pronti a componimenti che anticipavano lo stile e le tematiche che hanno segnato il ‘900.

Uno, in particolare, Thomas Wentworth Higginson, le consiglia di non pubblicare i suoi versi.

Emily, fortunatamente, continua a scrivere, per se stessa, per le poche persone con le quali intrattiene rapporti epistolari dalla reclusione che sceglie di condurre nella sua camera.

Non sicuramente per i posteri, che la consacreranno come una delle più grandi poetesse della storia, fondatrice, con Walt Whitman, della poesia americana.

La maggior parte dei suoi componimenti sono stati pubblicati postumi, rinvenuti in un cassetto della sua scrivania dalla sorella Lavinia solo dopo la sua morte, scritti su foglietti tenuti assieme perché cuciti con ago e filo.

Rifiuto vero, non letterario, non cinematografico, di un mondo che probabilmente le stava stretto.

Troppo avanti, per una provincia puritana ma soprattutto per il gusto del tempo, come ogni artista dotato di autentico genio.

Proprio in Io sono Nessuno, la Dickinson segna il suo rifiuto di un’umanità che dalla sua prospettiva non ne riesce a percepire la sua grandezza.

Umanità a cui sbatte in faccia la porta della sua camera, specialmente con quella bruciante affermazione.

Io sono nessuno.

L’orgogliosa conferma della sua alterità rispetto a un certo modo di essere umanità.

O di non esserlo, chi può dirlo.

La volgarità di essere qualcuno.

E mai, quanto oggi, tra le verità urlate di televisioni e di social, di sedicenti saggi che proclamano verità assolute, in nome di nuovi dei e nuovi dogmi, essere qualcuno appare volgare, fastidioso, ci si sente altro.

Ci si sente Nessuno, per non avere formule che aprono mondi, per avere più dubbi e domande che certezze da gridare.

Non perché si è migliori.

Ma semplicemente altro.

Io sono Nessuno, tu chi sei?

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.