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Invisibilità fotografica, FOAM di Amsterdam

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FOAM di Amsterdam


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Amsterdam. Arrivo all’ora di pranzo. La fame non mi consente di aspettare i tempi per il ritiro dell’auto a noleggio e dunque mi avventuro tra le offerte di ristorazione dell’aeroporto di Schiphol. La quantità di etnie che attraverso è veramente impressionante. Mi sembra di essere caduta in un libro di antropometria delle specie umane.

Una varietà di caratteri e colori, un generale buonumore… o almeno così mi sembra dal momento che sono atterrata dolcemente tenendo la mano a un divertito olandese di ritorno a casa. Il panino che addento sa di buono, riempito di salse che attentano alla salute mia e di chi mi incontrerà, ma nulla riesce a cancellarmi il sorriso che ho stampato sulla faccia. Mi sento bene. Approfitto della pausa che mi sono regalata per fare un resoconto della lista di cose da vedere. Come al solito ho esagerato credendomi una sorta di eroina romantica: non riuscirò a vedere tutto…

La consapevolezza che, una volta tanto, precede la tragedia invece di seguirla, mi dice che è più saggio dare un elenco di priorità, insomma fare un sottoelenco dell’elenco. Niente da fare, non riesco proprio ad essere meno complicata di così. Tra le prime cose che conto di visitare c’è – e come ti sbagli – il locale museo di fotografia. Per amore di chi mi accompagna nel viaggio non lo inserisco proprio tra le prime cose da vedere, chiaramente il Museo Van Gogh e quello di Rembrandt, per non parlare di quella stupenda creatura che è il Museo di arte moderna e design, uno dei più belli che si sia mai visto, hanno la precedenza…. Eppure, in maniera del tutto casuale, non incappo già il secondo giorno di permanenza nel Fotografiemuseum Amsterdam, per gli amici FOAM?
Qui ci starebbe proprio bene una sequenza di faccine sorridenti e simpatiche, ma IO sono ancora del secolo scorso.

Il palazzo non è niente di che, nel senso che si sposa bene all’architettura di Amsterdam, fatta eccezione, però, per la bandiera che sventola annunciandolo, non ti gireresti a guardarlo.

La sala di ingresso condivide il suo spazio con un bookshop che mi cattura subito, dandomi immediata l’idea di una struttura che tiene molto alla modernità della ricerca fotografica, non solo alla sua storia. Bene.

Si scendono pochi gradini che portano ad un video girato da un pescatore libico, immagini girate con un telefonino che rendono bene la precarietà del tutto. Il pescatore si rivolge ai ragazzi che tentano la traversata su un gommone più precario ancora della loro condizione e cerca di dissuaderli, informandoli della presenza della guardia costiera. Riesce a farli desistere. Ma sappiamo tutti che è solo un ritiro temporaneo. Girato l’angolo ci riproveranno.

Il FOAM dedica fino al 9 settembre una mostra dal titolo ‘Invisibles’ al tema del momento: tutti quelli che i più chiamano altri e che come dice la canzonetta “siamo noi”. Foto, video, registrazioni audio guidano i percorsi del museo.

Il primo piano è dedicato all’opera di Samuel Gratacap, un giovane fotografo che dedica già il suo primo lavoro, ‘La chance’, alla migrazione. È ancora studente di Belle Arti a Marsiglia, quando ritrae in un centro di accoglienza i migranti senza documento di riconoscimento, si occupa di descrivere la loro condizione. Al FOAM le sue foto riempiono tutta la parete, con facce e mani che gridano la loro umanità a dispetto di qualunque numero o cifra pretenda di raccontare, meglio del tuo volto, chi sei.

'La chance', Samuel Gratacap
‘La chance’, Samuel Gratacap

Dal 2007 il fotografo francese Samuel Gratacap racconta le storie dei migranti che ha incontrato in Tunisia, Libia e Italia. Ascoltando le loro testimonianze, cerca di tracciare le strade che percorrono dall’Africa all’Europa, attraversando il Mediterraneo.

I suoi lavori si concentrano sui luoghi che segnano le rotte migratorie, come i valichi di frontiera, i campi di accoglienza, le prigioni; per Gratacap però si tratta di una ricerca che supera i luoghi fisici e rivela anche il percorso per costruirsi una nuova identità. […]

Seguendo le notizie diffuse dai media tradizionali mi sembrava di allontanarmi sempre di più dalla realtà, con le loro immagini anonime e le testimonianze impersonali”, racconta Gratacap, dichiarando esplicitamente le sue intenzioni come fotografo: “Volevo ricercare una realtà umana, rendere visibile queste storie al di là di numeri e dati”.

La ricerca di Gratacap si estende anche allo stile, scegliendo di stare in una terra di mezzo tra arte e fotogiornalismo, rimanendo sempre concentrato sull’analisi geopolitica delle migrazioni e delle sue conseguenze sull’economia e sulle persone.

https://www.internazionale.it/foto/2018/07/06/migranti-samuel-gratacap

Le immagini sono tutte di grande impatto. Gli occhi che ti fissano, mi ricordano subito un giochino che si faceva per definire uno stato d’anima. Sì… d’anima…

Se guardando una foto ti sembra che il soggetto ritratto ti guardi male, ti sembra anche arrabbiato, ce l’ha con te… probabilmente è quello che senti tu, più che quello che dice lui. Al contrario, se gli occhi ti appaiono dolci e benevoli, o tristi… ancora una volta tutti gli aggettivi che scegli sono più tuoi che del protagonista della foto. Insomma… mi sento in colpa. Queste foto scelgono la via dello stomaco. Soprattutto quelle delle donne ritratte.

Un’altra strada, invece, per raccontare è quella di Martina Bacigalupo, una quarantenne fotografa genovese, molto apprezzata nel panorama internazionale. Lavora come fotografa freelance in Africa Orientale, soprattutto in Burundi, collaborando con diverse ONG. Sceglie un racconto che per certi aspetti è opposto a quella di Samuel. Pur essendo una fotografa di eccezione, propone un esempio di arte e ricerca fotografica. Presenta, infatti, una impaginazione di scarti di foto di uno studio fotografico ugandese:

I clienti del Gulu real art studio sono contadini, insegnanti, soldati, studenti o madri con i loro bambini, che hanno bisogno di fototessere per documenti ufficiali.
Il fotografo del laboratorio li ritrae per intero (spesso scattando istantanee di gruppo con più persone che poi si dividono le spese) e solo dopo ritaglia le foto intorno ai volti, buttando via il resto.

Le immagini raccolte da Bacigalupo, definite da gesti, vestiti e oggetti, rimandano alla tradizione africana dei ritratti in studio e allo stesso tempo creano immagini assolutamente non convenzionali.

https://www.internazionale.it/foto/2014/03/26/scarti-ritrovati

L’impatto con queste immagini, senza saperne nulla, senza leggere la didascalia che ne identifica la provenienza, rimanda invece immediatamente alla perdita di identità, al NON DIRITTO DI ESSERE, di questi soggetti. È, infatti, loro negata la faccia. È quello che pensi quando li vedi in sequenza.

Per paradosso seguono nel racconto, invece, queste foto “segnaletiche” che per un effetto esattamente contrario affermano lo stesso principio di mancanza di dignità dell’esistenza. Si tratta di immagini realizzate da Thomas Cunningham (1836-1900) che dedicò la sua produzione alla criminologia forense ed alla sociologia. Inanella una quantità di immagini che ritraggono criminali e saltimbanchi. Ai primi è assegnato un clamoroso primo piano che possa mettere bene in luce le fattezze dei cattivoni, come il nostrano Lombroso ed il buon Mantegazza hanno diffusamente spiegato anche a noi compatrioti, senza lasciare alcun dubbio sulla capacità a delinquere annunciata già dai tratti somatici.

https://collectordaily.com/the-shadow-archive-an-investigation-into-vernacular-portrait-photography-walther-collection/

Mi auguro si legga l’ironia perché di razzisti di ritorno ne abbiamo già a sufficienza.

Una foto, dunque, quella di Cunningham che serve al percorso sugli invisibili, dal momento che si tratta di una strada nel tempo e nello spazio. Le scelte operate dall’allestimento dimostrano come la fotografia riesca a trarre fuori dall'”invisibilità” le persone, altrimenti private del diritto all’anima. Continuo nel percorso di cui, per ragioni di spazio della rubrica, ho scelto solo alcuni dei tantissimi autori presentati, riflettendo come nel caso dei saltimbanchi, invece, Cunningham possa divertirsi con sequenze e foto non solo di figura intera del soggetto, ma addirittura di racconto dell’acrobazia. Si badi che essendo nel pieno del dagherrotipo non erano foto di facile realizzazione.

Tra i nomi della fotografia presenti vi è quello di Richard Avendon, che non ha certo bisogno di presentazioni. Mi ha colpito in particolare un ritratto di Bush a cui il fotografo è riuscito a dare un volto e un’anima che rimandano ad una profondità che credo l’uomo in carne ed ossa non possieda.

Tre ore. E non vi ho detto praticamente quasi nulla. Nulla di quello che sentito e capito… ma quante pagine ci vorrebbero! Tre ore tra fotografie realizzate da sconosciuti, litografie, video, audio, sperimentazioni, foto di Samuel Fosso, Lolo Veleko, Adolfo Patino, Grace Ndiritu, Accra Shep… e sicuramente dimentico più di uno.

Arrivo alla piccola biblioteca che affaccia su uno dei tanti canali della città. Una scala chiocciola e la luce che mi coccola. Sono dentro le storie e le facce che mi rincorrono da un secolo all’altro per dirmi chi sono. Mi tengo stretto questo stato d’animo mentre mi concedo un the nella sala interrata e riguardo le foto che ho scattato per aiutarmi in questo racconto.

Come si fa a lasciare un traccia VERA sull’identità dell’altro? Degli invisibili? Ma pure di coloro che crediamo di vedere e invece non vediamo. Mi rispondo che i fotografi che ci sono riusciti hanno saputo ACCOGLIERE l’altro prima di COGLIERLO con l’obiettivo. Hanno deciso che di quell’altro gli importava. Volevano sinceramente tenerne un ricordo, un tratto, un moto, un volto, ne hanno riconosciuto la dignità di pari passo con l’esistenza. Solo con questo passaggio di senso questa mostra e questo museo hanno potuto documentare attraverso un titolo sull’invisibilità la forza della visibilità fotografica.

A presto

Foto Fabio Testa

Foto Barbara Napolitano

Autore Barbara Napolitano

Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.