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Intervista in esclusiva ad Alessandro Averone

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Il debutto di ‘Aspettando Godot’ al Teatro Dei Conciatori di Roma il 23 febbraio

Al Teatro Dei Conciatori di Roma dal 23 al 28 febbraio 2016 andrà in scena lo spettacolo Aspettando Godot di Samuel Beckett per la regia di Alessandro Averone, prodotto da Sycamore T Company.

Protagonisti Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio Tintis e Francesco Tintis. Traduzione a cura di Carlo Fruttero. Scene Alberto Favretto ed Elisa Bortolussi. Costumi Marzia Paparini. Luci Luca Bronzo. Foto di scena Manuela Giusto. Ufficio Stampa Maya Amenduni. Web assistant Martina Mecacci.

Contattiamo direttamente Alessandro Averone, affermato attore e regista, che recentemente abbiamo apprezzato nel ruolo dell’usuraio e contrabbandiere Bruno Jacobi nella serie ‘Il paradiso delle signore’, andata in onda su Rai 1, perché ci sveli qualche dettaglio sulla messa in scena di un’opera immortale e significativa come quella di Beckett. Ricordiamo che tra l’altro, Alessandro ha ottenuto il Premio della critica ANCT 2013 e il Premio ‘Le maschere del Teatro’ come miglior attore emergente 2015.

La prima curiosità concerne la scelta di un autore tanto impegnativo e se si tratti del suo primo approccio al drammaturgo irlandese.

Alessandro ci spiega che questa è la prima volta in assoluto che si accosta a Beckett, ma in realtà ‘Aspettando Godot’ è un testo che sfiora da anni che ha sempre suscitato in lui un grandissimo interesse.

Beckett ha una ‘poesia’ particolare nel modo di relazionarsi a tutto soprattutto nei confronti di una non – direzione segnalata per l’essere umano, di un nulla che pare esserci intorno. Nonostante in molti ritengano che lo scenario in cui ambienta le sue opere sia deprimente, per me ha invece, all’interno, una vitalità notevole perché descrive la forza di reazione dell’uomo di fronte alle difficoltà e alle circostanze della vita.

In questo testo, i personaggi, per combattere l’assenza di punti di riferimento, cercano qualunque via di fuga nell’attimo, nel presente, nell’istante.
Mi stimolava proprio questo tipo di sfida e da qui sono partito.

Confrontarsi con la genialità di Beckett non è affatto semplice, ancor di più se pensiamo che ‘Aspettando Godot’ è un’opera molto particolare, magnifica espressione del Teatro dell’Assurdo. Nel caso di questa specifica messa in scena quale le complessità maggiori, a parte il ‘sano’ timore dell’approcciarsi ad un dramma tanto significativo e rappresentato ovunque nel mondo, chiediamo.

Le difficoltà, chiosa Alessandro Averone, sono quelle ‘calcolate’ a priori quando si sceglie di allestire un dramma di Beckett che ha la sua esplosione vitale proprio sul palco.

Tante cose si riescono a capire proprio mettendole in scene con gli attori perché si tratta di un’azione che si svolge anche attraverso i cambi di battute, i dialoghi, i monologhi, i silenzi, le pause, tutti meravigliosamente comunicativi.

Come in ogni opera è sempre una bellissima scoperta provare a vedere, anche con gli attori, come si sprigiona la magia di Beckett.

Quali le disposizioni registiche date agli attori; si è lasciata loro una certa autonomia o hanno dovuto attenersi strettamente alle sue direttive, chiediamo.

Da attore ritengo che la situazione migliore sia proprio dare ai miei colleghi indicazioni di massima su un’ossatura precisa da un punto di vista scenico e di regia che possano però consentire ad ognuno degli interpreti, una volta entrato bene nel personaggio e chiarito il percorso che deve fare, di essere creativo e propositivo sempre nel rispetto dell’azione e della volontà del drammaturgo.
Sono ben felice di ricevere da parte loro delle proposte consapevoli e coerenti con l’opera che non vadano a snaturala, ma apportino un contributo concreto.

Quale tipo di scelta registica è stata adottata; si è optato per la versione originale del testo o si è seguita una direzione differente, chiediamo.

Sono rimasto fedele a Beckett anche perché non si può fare diversamente, ci sono regole molto rigide nel rispetto dei testi e delle didascalie. Nell’epoca in cui l’opera è stata scritta, dopo la seconda guerra mondiale, il contesto storico era diverso da quello di oggi, ma mi viene da pensare che la mia generazione, quella cioè compresa tra i 30 e i 40 anni, data la particolare situazione sociale ed economica viva comunque nell’impossibilità di trovare dei punti di riferimento.
Oggi c’è un’assenza di direzione molto marcata, forse per effetto di falsi miti, falsi profeti, false ideologie.
Siamo di fronte ad una specie di supermercato sterile di immagini, concetti, voci che provengono anche dalla rete, mezzo potentissimo ma, al contempo, pericoloso di cui non ci si può fidare perché non in grado di darci mai una verità cui poterci aggrappare.
Perché non provare, quindi, ad avere protagonisti più giovani che in qualche modo rappresentino la mia generazione ‘persa’?
L’unica salvezza in questo mondo, secondo me, è appigliarsi al contatto umano, a ciò che può ora legare gli individui: affetto e sentimenti, anche cercati disperatamente.

La scelta del cast da cosa è stata dettata, ‘solo’ dalla ricerca di interpreti preparati e coetanei o anche da altro, chiediamo.

Mi sono rivolto a persone che già conoscevo sia da un punto di vista lavorativo che umano. Per me è importante riuscire a portare in scena non solo competenza e professionalità, ma soprattutto il coraggio della propria umanità non filtrata da tecniche artistiche.
Gli attori devono amalgamarsi tra di loro trovando una particolare sintonia sulla scena.
Fondamentalmente in ‘Aspettando Godot’ i personaggi sono due coppie che tendono ad assottigliarsi e a diventare in realtà un unico personaggio. Affinché siano credibili, l’affiatamento tra di loro deve essere palpabile.
La distribuzione dei ruoli è stata chiara fin da subito.
Marco Quaglia interpreta Vladimiro, Mauro Santopietro Estragone, Lucky Gabriele Sabatini, Antonio Tintis Pozzo.
Il ragazzo è, invece, Francesco Tintis, il figlio di Antonio, che ha solo 8 anni: appare così sulla scena una generazione molto più piccola, quella dei nostri potenziali figli. Le sue due entrate, se pur brevi sono molto significative: Beckett voleva indicare che c’è incertezza del futuro, incoscienza per ciò che ci aspetta, che però a volte è anche una forza per resistere in un mondo così complicato. Un po’ di ‘sana follia’ può essere talora un’ancora di salvezza, un modo per andare avanti.
In quest’opera vedere un bambino sul palco con degli adulti che hanno ovviamente una consapevolezza ben diversa dalla sua, aiuta lo spettatore ad empatizzare. C’è da chiedersi cosa gli riserverà la vita.

‘Aspettando Godot’ è un testo che si apre a molteplici chiavi di lettura, impossibili da schematizzare; ci sembra di capire che al di là dell’angoscia che inevitabilmente traspare, Alessandro stia cercando di puntare, nella sua regia, sulla speranza e fiducia nell’avvenire, commentiamo.

In quest’opera, secondo me, c’è un messaggio di speranza, una luce disperata, una poeticità abbastanza sottile che ricorda quella dei clown, una tenera tristezza, un sorriso amaro che mi interessa andare a ricreare perché il pubblico li ‘veda’.
Il trascorrere del tempo, della noia, dell’angoscia che i personaggi vivono per cercare di superarli è impiegato in un’attività quasi animalescamente ludica, come il continuo giocare con le parole.
Volevo porre l’accento sull’attimo, presente in ogni opera di Beckett e soprattutto in ‘Aspettando Godot’.
Né il passato né tantomeno il futuro indeterminabile possono aiutarci a resistere in questa vita. Tutto ciò che è un filosofeggiare sull’esistenza può essere molto rischioso proprio perché non porta a delle verità, a delle risposte.

Impossibile determinare in modo univoco chi sia Godot, troppe e diverse le interpretazioni date dal 1952 ad oggi, data della pubblicazione della pièce. Per Alessandro, chi o cosa è Godot, chiediamo. 

Per quanto mi riguarda Godot è qualunque tipo di forma di senso dell’essere qui e ora nel mondo di ognuno di noi, qualunque cosa che possa colmare quel mistero che inevitabilmente circonda la nostra realtà che ha a che fare con il perché siamo su questa terra. Non ci si può appigliare a nulla che possa colmare quell’enigma, se non una dimensione presente costante.
Nel testo tutto il discorso dei personaggi sul tempo che sembra fermo rappresenta un qualcosa di non solido su cui non poter fare affidamento: il non ricordare che giorno sia, i vuoti di memoria, il mischiare i ricordi.
Per poter sopravvivere, in un certo senso, si è condannati a regredire ad uno stadio animale ed infantile. L’esempio più calzante è quello del bellissimo e sconclusionato monologo di Lucky, dimostrazione paradossale ed esasperata che se ci si immerge nel pensiero più totale e profondo non si riesce comunque ad avere risposte e il cervello rimane imbrigliato in quella rete che tutto ciò che il pensiero non ancorato alla realtà può creare.
Gli scambi di battute tra Estragone e Vladimiro sono le ‘recite’, i meccanismi che nella vita facciamo spesso, un costante gioco delle parti, dei ruoli che recitiamo condividendo con altri la quotidianità.

Quale delle due coppie secondo Alessandro è più preponderante o sono entrambe funzionali l’una all’altra, chiediamo.

Sono entrambe complementari, anche se in modo diverso, ci spiega Averone, ed entra nel dettaglio.

La coppia di Pozzo e Lucky è più giocata su tinte forti ed estreme e rappresenta altre necessità dell’essere umano. In Pozzo vi è la necessità di dover avere un pubblico per il quale vivere e creare una specie di show, comunicare i propri sentimenti, i propri pensieri, delle verità, che siano vere o meno. Si tratta di ‘viandanti’ che hanno costantemente bisogno di un pubblico davanti al quale esibirsi.
Non è un discorso assolutamente metateatrale, ma riscontrabile nella vita quando c’è un’incapacità di fare da soli. Appena ci si allontana c’è il rischio di sentire la condizione di solitudine dell’uomo radicata e radicale. Nel duo Pozzo e Lucky tutto è più estremizzato: sembra che l’essere umano debba, per forza di cose, tenere metaforicamente a guinzaglio il pensiero, sedando ciò che può apparire molto pericoloso che, con il passare del tempo, può portare ad una disperazione ancora maggiore.
Nel caso di Vladimiro ed Estragone, invece, tutto è meno estremo e più giocato su sfumature. Ovviamente tra questi due personaggi ci sono delle differenze, ma c’è una complementarietà fatta di punte più arrotondate che si compenetrano maggiormente nei dialoghi durante tutto il testo.
Entrambe le coppie rappresentano quello che siamo un po’ tutti; ognuno di noi, in effetti, ha degli aspetti di ciascuno dei quattro personaggi.

Sempre più affascinati chiediamo come sia stata operata la scelta della scenografia.

Sono rimasto fedele alle indicazioni dell’autore, ma ho reinterpertato qualcosa. Ciò che volevo era un’ambientazione che fosse il più possibile lontana da un qualcosa di naturale, cioè non relativo alla Natura per un motivo preciso. Nella mia rappresentazione, albero e landa sono il risultato di un qualcosa che ha a che fare con l’uomo; dei resti di ciò che è un mondo in cui c’è stata una responsabilità umana e sociale.
La scenografia è un fondo con una pedana, una sorta di residui di cenere, bitume, materiali prodotti dall’industrializzazione, qualcosa di bruciato che non ha più vita perché consumatosi del tutto.
Il fondo è scuro, tra il grigio e il nero, ed è altamente simbolico perché evidenzia l’impossibilità di rigenerazione. Ci saranno poi altri elementi, una fila di tetti e, dall’altro lato, un lampione stradale.
È come se questa cenere e i rifiuti tossici dell’industrializzazione fossero arrivati a coprire l’altezza delle case, ci si cammina sopra senza vedere nulla. Si vede solo ciò che è stato sommerso.
Di conseguenza, l’albero, una specie di felce, assomiglierà alle antenne poste sui tetti delle case e pur riconoscibile come forma, al suo interno non avrà vita. Nel secondo atto, le foglie ricorderanno dei festoni, degli elementi verdi portati dal vento e rimasti impigliati e non saranno un segno di rinascita.

Quanto ai costumi e alle luci, invece, come saranno, chiediamo.

Useremo degli abiti più contemporanei rispetto a quelli indicati da Beckett e tutti porteranno in testa l’immancabile bombetta.

In particolare, Vladimiro ed Estragone indosseranno abiti logori e consunti che daranno l’idea di essere usati da anni.
I vestiti degli altri due, più dignitosi e un po’ eccentrici, sembreranno quelli da vecchio cabaret, di tonalità nera per Pozzo, bianca per Lucky. Quest’ultimo inoltre porterà con sé una valigia, un seggiolino, il cappotto e la frusta di Pozzo, oltre ovviamente la corda al collo, altamente simbolica.

Le luci sicuramente avranno un effetto quasi atemporale per dare l’immagine del tempo che si è cristallizzato, lasciando così indefinito l’orario della giornata. Prevarrà l’azzurrino contrapposto poi al buio della notte.

L’ultima domanda, e non certo in ordine di importanza, riguarda il rapporto che lega Alessandro con Cynthia Storari, produttrice dello spettacolo con la sua compagnia Sycamore T Company.

Il legame che mi unisce a Cynthia Storari non è prettamente lavorativo, ma soprattutto personale.
Ci conosciamo da anni, abbiamo lavorato spesso insieme e ci troviamo in perfetta sintonia.
Produrre teatro, oggi, è una scelta molto coraggiosa, non facile, un rischio che non tutti si assumono e a lei non posso che dire con grande ammirazione ‘chapeau’!

Ringraziamo Alessandro Averone che tutte le profonde e complete delucidazioni ci ha aiutato a capire il ‘suo’ Godot.

Non resta godersi la pièce, che siamo certi, date le premesse, sarà un successo.

Per chi volesse contribuire al crowdfunding per lo spettacolo, tutte le informazioni sono reperibili sulla pagina Facebook.

In alternativa è possibile contattare la mail bardolatry@iol.it.

L’appuntamento con ‘Aspettando Godot’ per la regia di Alessandro Averone è quindi al Teatro Dei Conciatori, via dei Conciatori n. 5, Roma, dal 23 al 27 febbraio alle ore 21:15, il 28 febbraio alle ore 18:00.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.