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Intervista al regista ed autore Pasquale Faraco

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'Questioni di centesimi', foto di Manuela Giusto


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‘Questione di centesimi – Sogno di un Operaio’: un racconto sul “nostro” tempo, tra nevrosi ed alienazione

Ho visto ‘Questioni di CentesimiSogno di un Operaio‘ di e con Pasquale Faraco per la regia di Paolo Schena, che è stato in scena la settimana scorsa per quattro giorni al Teatro Studio Uno di Roma.

Una narrazione asciutta, un testo senza compromessi, una rappresentazione del reale attraverso il viaggio onirico di Riccardo Belladonna, operaio e cantante neomelodico: durante i suoi turni alla catena di montaggio Riccardo appena può canta. Nel suo zainetto nasconde sempre un’asta ed un microfono. La canzone di Riccardo però rimane non-finita. Per quanto lui si impegni non riesce a portare a termine la composizione. Nel non-finito della sua canzone c’è l’indefinito della sua esistenza: operaio o cantante?

Su questa metafora si dipana il racconto di un uomo alla ricerca di un’identità perduta, sospeso tra i ritmi incessanti del suo lavoro ed il continuo desiderio di evadere da quel controllo asfissiante. In questa sospensione Riccardo Belladonna è bloccato nella fissità dei suoi movimenti cronometrati, misurati, controllati, e anche la sua fuga rimane incompiuta, quotidianamente, ripetutamente incompleta.

Un’esistenza cristallizzata, quella di Riccardo Belladonna, ormai incapace di interpretarsi e di interpretare il mondo. Cosa avrà votato al referendum del 2010 alla Fiat? Non lo sappiamo e non conta saperlo. Ogni giorno, in ogni suo turno, non ripete soltanto la sua routine, ogni giorno Riccardo Belladonna rimette in scena anche il suo onirico tentativo di fuga. Questa dinamica è la chiara rappresentazione di una nevrosi profonda dalla quale non riesce ad uscire e che ormai lo domina.

Pasquale Faraco, attraverso una recitazione misurata, che ne esalta la tensione drammatica, è riuscito a rappresentare tutto ciò concedendosi guizzi di sana ironia e piccole gag che divertono non poco lo spettatore.

Abbiamo voluto incontrarlo perché ci è piaciuto molto il suo spettacolo e anche perché lo conosciamo da quasi trent’anni. Pasquale è un carissimo amico dei tempi dell’università e ci siamo divertiti a fare, io la parte dell’intervistatore e lui quella dell’attore-autore teatrale. Giocavamo trent’anni fa e continuiamo a farlo oggi.

Caro Pasquale, erano ben 10 anni che non ci vedevamo ed ora ti ritrovo qua. Chi ti conosce sa che hai sempre coltivato la passione per il teatro, ma assistere ad un tuo spettacolo è stata per me una cosa veramente piacevole. Toglimi subito una curiosità, che poi non è una semplice curiosità, come nasce questo spettacolo?

È nato tanto tempo fa. I racconti di mio padre, che per un periodo di tempo ha lavorato all’Alfa Romeo di Pomigliano, sono stati la base su cui ho costruito tutto.

Papà, in verità, c’è stato poco, non ha resistito e se n’è andato, ma quel poco tempo è stato sufficiente per capire che non era un luogo adatto a lui.

Perché “non era un luogo adatto a lui”?

Semplicemente perché lui era un’artista e per un artista avere il fiato sul collo del caporeparto che prende il tempo, cronometra ogni tuo movimento, per intenderci, hai presente “Lulù”/Volontè della ‘Classe operaia va in paradiso’?
ecco di quello parliamo, avere uno di quelli addosso, è mortificante.

E per lui pensare che uno di questi, se non stavi nei tempi, aveva il potere di decidere delle tue sorti in fabbrica era allucinante, inaccettabile. Che poi è un po’ quello che succede oggi, non trovi?

Ti riferisci alla realtà del lavoro odierno non solo in fabbrica?

Certo. Tutto il lavoro oggi si basa sulla ricerca spasmodica della performance, della capacità delle persone di adeguarsi ai ritmi della struttura, ti chiedono di essere proattivo, di avere capacità di problem solving, che po’ “che mi significhi” direbbe Totò, e di essere pure creativo, e in compenso ti chiedono di accettare di non avere certezze, soprattutto contrattuali: stai qui, ringrazia il cielo, produci altrimenti vai a… un continuo ricatto insomma.

Ritornando a Riccardo Belladonna e alla sua storia, tu fai riferimento esplicito nello spettacolo al referendum del 2010 in Fiat.

Sì, quello è stato un passaggio storico, possiamo dire, per la “classe operaia”… a proposito esiste ancora la classe operaia?

Non lo so Pasquà, dimmelo tu (ridiamo, ndr).

Ah, io mi ricordo di mio padre, del padre di Ciro (un comune amico, ndr) all’Italsider di Bagnoli, mi ricordo dei consigli di fabbrica.
In quel tempo possiamo dire che esisteva una classe operaia in Italia. Oggi esiste una massa di lavoratori, non una classe.

Oggi viviamo in un indistinto, viviamo nella società liquida, come ci ha spiegato Bauman, e pure la classe operaia è liquida, anzi liquefatta. Non c’è rappresentanza, non c’è un partito di riferimento, anzi, anche i partiti sono liquefatti.

Ritorniamo al referendum in Fiat. Quale relazione c’è tra la tua narrazione e quel momento storico?

In realtà è la logica continuazione tra i racconti di mio padre, dei miei amici e la cronaca di quei giorni e del nuovo modello Fiat, l’attuale Fca. E allora mi sono posto dal punto di vista di uno degli operai, tra paura di perdere il posto e consapevolezza che qualcosa cambierà, sostanzialmente in peggio.

Insomma, ho voluto mettere in evidenza tutta la contraddizione di quel passaggio. L’operaio, il mio operaio non prende una vera posizione, è ondivago, contraddittorio, ma nonostante tutto rimane assai vitale o crede di esserlo.

Com’è stato il lavoro di scrittura?

In un certo senso rapido, perché c’era una sensazione chiara in me. Poi più ci lavoravo e più capivo e mi accorgevo che diventava un lavoro sul tempo, sul nostro Tempo e sul modo con cui noi siamo dentro questo tempo alienato, hai presente i criceti nella ruota, ecco quelli siamo noi.

Ma che tipo di teatro è il tuo? Come definirlo… politico, antropologico, come?

Boh, forse politico, ma non saprei. Non mi pongo l’obiettivo di fare un tipo di teatro, sarebbe credo velleitario addirittura.

Poi non credo molto al teatro cosiddetto antropologico, è una definizione di comodo che non significa niente e, più che altro, “è di moda”. Io la considero una sorta di mancanza di originalità e se vuoi di cattiva fede artistica: cioè tu intervisti operai e poi sulle loro storie ci fai lo spettacolo.

Non voglio banalizzare e ci sarebbe tanto da dire, però per me un teatro del genere anch’esso è una forma, per così dire, di sfruttamento.

In che senso?

A me interessa evidenziare le contraddizioni. Contraddizioni che sono in tutti noi, in me. Contraddizioni che sono anche finzioni e tutto ciò mi riguarda, riguarda me per primo come persona e come autore/attore e riguarda Riccardo Belladonna.

Il più bel complimento è quando mi hanno detto che hanno trovato nella narrazione “autenticità”.
Ecco, è il paradosso dell’attore, un po’ come diceva Diderot: fingere un sentimento per essere autentici, ma questo può avvenire soltanto se sei vero e sincero con te stesso.

A me non piace la denuncia fine a se stessa, è una forma di autocompiacimento, cerco soluzioni, una via di uscita. Accertato che Godot non arriverà mai, meglio mettersi in viaggio!!!

Scusami se faccio un incursione nel personale, ma conoscendoti non posso non chiedertelo. Quanto effettivamente ha contato tuo padre nella stesura del testo?

Il rapporto con mio padre è stato, come penso per tanti, assai contraddittorio, spesso conflittuale, però sempre anche tanto, tanto fecondo.

Oggi mi ritrovo da padre ad essere mio padre, a guardarmi allo specchio e a riconoscerlo, è lì incistato, inchiavardato nella mia carne, con tutti i suoi difetti.

In realtà, capisco ora che nascondeva una voglia di vivere, un viversi dentro, come se per lui fosse impossibile condividere il suo mondo interiore. Comunicava attraverso la sua arte. Allora, a differenza di oggi, non lo capivo e mi faceva male. La sua arte, la sua visceralità…

sì, mi manca mio padre. Anche oggi avrei da ridire sul suo modo di fare, ma oggi lo comprendo di più, forse oggi siamo pari.

E per rispondere alla tua domanda credo abbia contato molto e questo testo credo che sia una sorta di omaggio a lui e anche un modo per me di ritrovarlo.

Scusa se divago… e come padre tu come sei?

Beh, io sono più severo con me stesso, più, come dire, “preciso”.
La sua presenza-non presenza con noi figli, ad esempio, quante cazziate che ci facesse!!! Ti ripeto, anche oggi non condividerei alcune sue cose, comportamenti. Ma ricordo però sempre quella frase di Nietzsche: non è segno di salute voler essere più zelanti del proprio padre.

Passiamo a te come autore-attore teatrale. Cosa c’è prima di ‘Questione di centesimi’?

Un po’ di monologhi, portati in scena da me, non tutti però, come ‘Un foro per Lucio Fero in Ferie’, il cui protagonista è il Diavolo costretto ad andare in analisi visto che il mondo ormai cattivissimo, sembra non avere più bisogno di lui. Ripresosi, torna a tentare le persone, ma non trova di meglio che farlo con una mela.

Mi sono divertito a scriverlo, se non mi diverto io non scrivo, e poi al mio Lucio Fero sono affezionato… è stato il mio primo spettacolo.

E come tutti i drammaturghi che si rispettano, hai scritto una trilogia. Me ne parli?

Sì, non mi sono fatto mancare neanche la trilogia (ridiamo, ndr).
È una trilogia sulla Terra dei Fuochi: ‘‘A mullett’”, ‘L’Annunciazione’ e ‘Cronache dalla Dioscarica’.

Il filo conduttore dei tre testi è metaforicamente la Campania, ovvero la Dioscarica, ma in tutti e tre ho cercato di rappresentare il disagio esistenziale dei protagonisti attraverso l’alienazione, la diversità, la solitudine e la sofferenza arrecata da quello scempio ambientale.

‘A mullett’’ vede protagonista un trans che non riesce a “tagliare” con il proprio passato.
In ‘Annunciazione’ una donna è incinta di un figlio mostruoso.

Chiude la trilogia ‘Cronache dalla Dioscarica’ in cui è protagonista un ex giornalista che ha perso il figlio e vive come un clochard nella discarica, che ormai è un mondo a se stante, vive di vita propria e genera una nuova mostruosa umanità.

Ricordo che questi testi hanno riscosso un certo successo, quanto meno, tra gli addetti ai lavori.

Vabbè, successo è parola grossa, diciamo che sono stati notati. ‘Annunciazione’ ha ricevuto una menzione speciale al Beyond Festival di Roma e al Nops Festival sempre di Roma.

I testi della Trilogia sono in napoletano. Ma tu scrivi anche in italiano?

Certo. Ho scritto ‘Eatalians Restaurant’, interpretato da due bravissimi attori Francesco Gentile e Marina Sacchetti, uno spettacolo sui servizi segreti e la strategia della tensione.

Diciamo che il “politico” è una costante nel tuo Teatro.

Diciamo che sono “ossessionato” dalla realtà, con il teatro non faccio altro che rielaborarla… ognuno ha le sue perversioni, la mia si chiama teatro.

Mi dicevi dei testi in italiano.

Sì. Ho scritto alcuni corti teatrali, anche di occasione, e poi altre cose come ‘La notte prima della libertà’ sugli ebrei di Mantova, messo in scena nel cortile della sinagoga di Mantova, un luogo meraviglioso.

So che ti sei cimentato anche con gli effetti dei social sulle persone.

Sì, mi sono divertito a mettere in scena la mania sociocompulsiva del postare sui social con ‘Posto, dunque esisto’

a proposito questa intervista la posso postare sul mio profilo?… scherzo, rimanevo in tema.

E cosa mi dici dei tuoi “sodali” Paolo Schena e Dragan Milandinovic?

Sì, sono i miei meravigliosi compagni di giochi e di viaggi. Con loro nel 2014 ho costituito il collettivo MaF-Massa a Fuoco, che ha per simbolo l’ultimo quadro di mio padre. Ci tengo particolarmente.

Cos’è ‘Massa a Fuoco’?

Volevamo qualcosa che sintetizzasse la nostra “poetica”: la massa che vive nel fuoco della contraddizione dello sfruttamento, della nevrosi e a sua volta viene messa a fuoco, cioè sotto la lente di ingrandimento.

Voglio ricordare anche la collaborazione con Francesco Gentile con cui ho scritto ‘Fiori Capovolti’ sulla Shoah, andato in scena per la regia di Danilo De Summa in una giornata della memoria di qualche anno fa.

Dove rappresenterai ancora ‘Questione di Centesimi’?

La prossima dovrebbe essere Prato a marzo, poi forse Cagliari a settembre, per festeggiare i dieci anni del Festival del Balcone. Poi ancora a Bologna, ma è tutto da definire.

E quando porterai ‘Questione di centesimi’ a Pomigliano D’Arco?

È il mio sogno… chissà forse si sta muovendo qualcosa in questo senso: per gli operai ‘o facess’ ‘e corsa, ovunque.

A Bologna hai partecipato alla creazione di un laboratorio teatrale o sbaglio?

Vedo che sei informato. Sì, si chiama ‘Camere d’Aria‘, siamo a via Guelfa in zona Massarenti, in periferia. È un luogo pieno di iniziative corsi, laboratori, persone, viaggiatori. È coordinato da due splendide persone, Lydia e Silvia, creative e visionarie.
A Camere, tra l’altro, è il secondo anno che facciamo una bella rassegna teatrale.

Abbiamo avuto ‘Terra Matta’ di Stefano Panzeri, pluripremiato per questo testo. Poi avremo anche Pietro Dattola, giovane regista drammaturgo bravissimo che porterà uno spettacolo ‘Follower’ sui rischi delle app. E infine Adriano Marenco con Patrizia Bernardini, una bravissima attrice dell’avanguardia romana con uno spettacolo sulla regina Giovanna.

Cos’hai in cantiere?

Il 9 febbraio ho un piccolo monologo su Bologna all’interno della rassegna ‘Narrando Bo’.
Me lo ha proposto Leonardo Bianconi ed io ho accettato con entusiasmo, soprattutto per la stima che nutro per lui, è un attore bravissimo.

Ad aprile dovrei iniziare un residenziale che ho vinto sempre a Roma per uno spettacolo sul rapporto tra l’uomo ed internet: ‘L’uomo(s)connesso‘ che dovrebbe proprio essere con Bianconi. E poi vedremo.

Non ti stuzzica l’idea di interpretare testi di altri?

Come no? C’è l’idea di interpretare un pezzo di Adriano Marenco, talentuoso drammaturgo romano, apprezzatissimo. Ha scritto la ‘Casta morta’, io dovrei fare la parte di Don Verzè… mi ci vedi? (Don Luigi Verzè è stato il fondatore dell’ospedale San Raffaele di Milano, ndr) Per me è una bella sfida.

Poi sto lavorando su di un testo difficile, diciamo così intimo… vorrei mettere in scena la mia nevrosi. Mi alletta l’idea di “giocare” con me stesso… vedremo come evolverà.

Ritorniamo a ‘Questioni di centesimi’. Tu hai tenuto molto a dedicarlo a Maria Baratto, l’operaia cassintegrata che si è suicidata nel maggio del 2014.

Sì. Maria Baratto era una cassintegrata della Fiat di Pomigliano. Potremmo definirla, un po’ retoricamente, una vittima del sistema, ma in realtà, malgrado tutta la disperazione personale che cela un suicidio, il suo è stato un atto politico, anche per questo l’ho definita “guerriera”, anche se non amo molto questa parola. Questo suo gesto definitivo mi colpì moltissimo. Per me è stato doveroso dedicare a lei questo spettacolo.

Caro Pasquale penso che abbiamo detto un po’ tutto. Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato, ma ora ti chiedo di andare a mangiare perché ho prenotato un tavolo qui dietro e ci aspettano.

Sì, anch’io ho un certo languorino. Lasciami soltanto ringraziare Daniele Casolino, che mi ha chiesto di portare una cosa a Roma e che è un organizzatore impareggiabile, oltre che attore di gran talento. Senza il suo aiuto a Roma non ci sarei proprio potuto stare.

E infine un grazie speciale a Te, caro Bruno, che sei venuto a vedermi e mi hai regalato il piacere di rincontrarci dopo 10 anni.

Il piacere è stato reciproco. Alla prossima.

Foto Manuela Giusto

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Autore Bruno Santoro

Bruno Santoro, giovane cinquantino, o giù di lì, di indole barbuta e dal piglio rockeggiante. Sostiene pervicacemente che dopo i ’70 siamo piombati nel nulla più assoluto e guai a contraddirlo in merito perché, come un lonfo, "gnagio s'archipatta poi ti sbiduglia e ti arrupigna". Citazionista compulsivo, come Woody Allen, ritiene che la vita sia un caos con poche oasi e qualche momento comico. Sposato d’impulso e padre per vocazione di due marmocchi che educa socraticamente, nel senso che lascia fare alla moglie, tal Santippe detta Pina, s’infervora ancora sul mancato rispetto delle file, ma solo quelle dei capelli ormai. Tra le cose che odia: buttare giù due righe autobiografiche, se il soggetto da biografare è lui. Tra le cose che ama: non buttare giù due righe autobiografiche, se il soggetto da biografare è lui.