Basta l’amore di una madre per essere una “buona” madre?
Ieri sera, 22 marzo, al Teatro TRAM di Napoli, con Titti Nuzzolese, magica in scena, ho cercato un pezzo di cielo azzurro ad illuminare il buio di una vita.
Insieme a lei ho sperato, mi sono emozionata, ho sofferto e ho rapito mia figlia, nello spettacolo intitolato ‘Run baby run’ un ‘Thelma & Louise’ nostrano, drammaturgia e regia di Mirko Di Martino, ormai una promessa più che mantenuta, assistente alla regia Flora Tartaglia.
L’attrice è sola in scena e tuttavia, non perdendo mai il ritmo di una recitazione serrata ed avvincente, dà contemporaneamente e magistralmente voce, espressione corporea e profondità psicologica, con pochi tocchi, ai tanti personaggi che costellano la sua vicenda di madre considerata “inadatta” dalla società a prendersi cura di sua figlia neonata.
Titti Nuzzolese è Marta, madre tossica, disperata, dalla vita estrema e piena di sbagli, probabilmente davvero inadatta a badare alla sua piccolina, Viola, nata da una relazione improbabile.
La maternità è la sua ultima chance di riscatto da un destino segnato. E lei fugge da chi vuole negargliela, sorretta solo dalla forza dei suoi desideri.
Lo spettacolo, basato su una vicenda realmente accaduta, come mi ha rivelato il regista, tocca temi importanti ed attuali. Per ogni spettatore c’è un’emozione da esplorare o in cui riconoscersi.
Non importa essere o poter essere madri. Non importa quanti anni abbiamo. Non importa se si è o si è stati o si sarà genitori e non bisogna essere donne per immedesimarsi, capire o dissentire dalle scelte della nostra eroina.
Il suo essere un’emarginata, a causa di un percorso di vita apparentemente volutamente accidentato, in un primo momento ci fa rilassare e rinfrancare: a noi non capiterà mai una sventura simile.
Noi siamo quelli integrati nel sistema, siamo i buoni, e non conosciamo, né vogliamo conoscere il lato oscuro della luna.
Ci apprestiamo, quindi, a compatire con un pizzico di paternalistica partecipazione il destino della sventurata fuggitiva e quasi rabbrividiamo e ci rammarichiamo se solo immaginiamo, al posto della neonata, qualcuno dei nostri figli, presenti o futuri.
E con distacco o partecipazione continuiamo a seguire la vicenda, tanto crediamo che non ci tocchi.
La scenografia scarna ma geniale, ideata da Giorgio Lauro, che sottolinea ogni capitolo proiettando sul fondale delle frasi in bianco e nero, e i costumi severi, nei toni del grigio, della sensibilissima Annalisa Ciaramella, ci restituiscono l’idea di un paesaggio desolato, di una periferia industriale dai contorni aguzzi e senza ombre, dove la realtà non fa sconti a nessuno.
Un luogo deserto di affetti e di nascondigli.
Un luogo dove perfino sognare o sperare è un lusso.
Marta fugge e noi con lei.
Marta si aggrappa all’idea di una maternità catartica e risolutiva di ogni suo male.
Marta si racconta che tutto quello che accade è per sua figlia, a cui vuole regalare una vita migliore.
Marta più di una volta mette a repentaglio la vita di sua figlia…
Marta sbagliata.
Marta che sbaglia per colpa sua…
Oppure no?
La splendida protagonista dà voce in parallelo alle donne importanti e ingombranti nella vita della nostra ragazza sbandata: la madre e la nonna, che da tempo immemore non si parlano più e non si vedono.
L’una a Milano e l’altra arroccata in uno sperduto avamposto del sud Italia.
Lo fa con tale veemenza e immedesimazione che ci sembra di vederle, granitiche e ottuse, mentre si scagliano l’una contro l’altra, cariche di odio antico e inspiegabile, incapaci di comprendersi, amarsi e perdonarsi. Due eterni monumenti al rancore.
Improvvisamente un dubbio atroce: Marta e la sua vita dissestata e contro tutto e tutti, come prodotto dell’incapacità di amarsi e di comprendersi.
Marta, educata alla scuola del rancore e degli odi che non si placano.
Marta, nata per salvare e riscattare sua madre.
Marta, mai amata per se stessa, da una madre incapace di amore.
Quante madri allevano i figli nel rancore verso qualcuno o qualcosa che, a parer loro, ha rovinato loro la vita?
Quante madri considerano i figli un prolungamento del loro odio e li allevano come strumento della loro vendetta o della loro rivalsa?
Quanti figli portano il fardello di riscattare le frustrazioni dei loro genitori?
Quante nascite sono considerate un mero strumento di salvezza per i loro genitori?
Quanti figli vengono al mondo solo per soddisfare gli egoismi delle loro madri o dei loro padri?
Quanti di noi possono essere come lei?
Ora nessuno può sentirsi al sicuro. Non ci sono i buoni e gli sbagliati.
Non possiamo scappare dalle nostre ombre. Possiamo tutti essere Marta o la madre di Marta o sua nonna, e produrre mostri, fino a quando considereremo i nostri figli un mero monumento al nostro egoismo o, peggio, rivalsa o un’arma per vendicare dei torti subiti chissà quando e chissà da chi.
Ma Marta non ci sta: l’amore le inonda il cuore; davanti alle recriminazioni sterili di sua nonna che ancora inveisce contro sua madre comprende, finalmente, cosa vuole dire maternità.
Si ferma. Sono venuti a prenderla.
Sa che la separeranno da sua figlia.
Ma ora è una Madre vera e sa cancellare odio e rancore
Sa rinunciare a sé per il bene di un altro.
Sa rinunciare.
Alza gli occhi al cielo, cattura tutto l’azzurro che c’è, guarda diritto negli occhi chi, forse, le porterà via sua figlia e dice:
Questa è mia figlia ed io sono sua madre.
Prossime repliche stasera, 23 marzo, alle 21:00, e domani alle 18:00 al TRAM di Port’Alba, 30 Napoli. Non Perdetelo.
Foto Corrado Rinaldi
Autore Floriana Narciso
Floriana Narciso, napoletana. Un cuore sospeso tra Napoli e la verde Irlanda. Mediterranea nell'aspetto ma "Irish"nel midollo, vive costantemente in bilico tra due culture e pensa in due lingue fin dal primo vagito. Laurea in lingue straniere europee, dottorato in linguistica per scopi speciali su tematiche di politica internazionale, vive e lavora tra varie realtà. Pensa a buon diritto che i libri e i gatti siano i migliori amici dell'uomo. Nel suo sangue scorre prevalentemente un buon tè nero, forte e bollente anche sotto il solleone. Scrive perché non riesce a farne a meno.