di Valeria Serino
Essere donna, si sa, è un privilegio; diventare madri, sentire crescere in grembo un’altra vita è un dono. Avere un cuore che pulsa nel proprio ventre è un miracolo della natura. Ma non sempre portare avanti una gravidanza è possibile. Condizioni economiche precarie, situazioni familiari estremamente complicate, stati pisco-fisici particolarmente delicati possono indurre una donna a prendere una delle decisioni più difficili della sua vita: abortire. Attualmente l’aborto nel nostro Paese è garantito dalla legge 194/78, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
La legge stabilisce la possibilità per una donna di interrompere la gravidanza entro i primi 90 giorni; è possibile farlo oltre tale periodo solo quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
È proprio quest’ultimo caso quello in cui si è venuta a trovare Valentina Magnanti, 28enne romana costretta ad abortire al quinto mese di gravidanza in seguito alla scoperta che la malattia rara di cui è portatrice aveva colpito la bimba che aveva in grembo. Così la giovane donna si è avvalsa della possibilità di usufruire della legge 140 che all’articolo 6 stabilisce, appunto, il diritto di interrompere una gravidanza anche dopo i tre mesi in casi particolari come questo.
L’aborto è un sentiero impervio per le donne italiane nonostante sia un diritto previsto e tutelato dalla legge stessa. Il drammatico episodio è avvenuto nel 2010, ma solo adesso Valentina ha trovato la forza di raccontare l’accaduto e soprattutto di lottare affinché la Legge 40 riconosca anche alle donne portatrici di patologie rare di ricorrere alla fecondazione assistita.
Valentina infatti, appena rimasta incinta, sapeva benissimo che prima o poi sarebbe stata costretta a ricorrere all’aborto. Ma in un figlio sano lei e suo marito ci hanno sperato fino all’ultimo. Purtroppo non è andata secondo le loro aspettative. La strada verso l’interruzione di gravidanza è stata piena di ostacoli. Scopre che la sua ginecologa è obiettore di coscienza, quindi si rifiuta di far ricoverare la paziente. Dopo parecchi tentativi, viene finalmente ricoverata all’ospedale Sandro Pertini di Roma grazie ad una ginecologa che non si oppone all’aborto. Dopo 15 ore di sofferenza, la ragazza abortisce e lo fa da sola, affiancata soltanto dal marito, nel bagno dell’ospedale. I medici di turno erano tutti obiettori, perciò si sono sentiti in diritto di abbandonare la paziente al suo destino, lasciandola in preda a terribili sofferenze. Tutto ciò non si sarebbe verificato se i medici oltre all’obiezione di coscienza avessero avuto una COSCIENZA. Non si può essere medici e fingere di non sentire le urla di una donna in pericolo di vita. E tutta questa sofferenza si sarebbe potuta evitare se l’Italia non fosse il Paese dell’eterna contraddizione. La legge definisce la procreazione assistita come l’insieme degli artifici medico-chirurgici finalizzati al «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana […] qualora non vi siano altri metodi efficaci per rimuovere le cause di sterilità o di infertilità». Se la legge 40 consentisse la diagnosi pre-impianto anche alle donne malate e non solo a quelle che non possono restare incinte, non ci sarebbe bisogno di decidere se interrompere una gravidanza al terzo, quarto, quinto mese.. Valentina si è rivolta all’Associazione Luca Coscioni, da anni in prima linea in difesa dei cittadini più deboli, grazie alla quale ha presentato ricorso. Il Tribunale le ha dato ragione; nel giro di un mese il giudice ha riconosciuto due volte l’incostituzionalità della legge 40. Perciò Valentina ha ora una speranza in più di diventare mamma di un bimbo sano; una piccola vittoria per se stessa e per le migliaia di donne che vivono il suo stesso dramma.