La nostra Comunità è sconvolta. Un nostro fratello si è tolto la vita… Lo ha fatto all’improvviso, dopo aver attraversato un lungo periodo di depressione. Ma depressione è una parola che vuol dire tutto e non vuol dire niente.
È un’etichetta generica che non dà conto nel profondo, nel dettaglio, nella più intima constatazione interiore, dei contorni della sofferenza, del dramma psichico, dei pensieri, delle sensazioni provate, degli abissi – e quale tipo di abissi – che ha toccato il sofferente nella propria discesa agli inferi.
Siamo particolarmente sconvolti perché la nostra Comunità si chiama Massoneria.
Un luogo speciale che da millenni attraversa la storia sospinto dal fuoco della Tradizione.
Una Tradizione che ci insegna che l’uomo profano, sconosciuto a se stesso, condizionato da dogmi morali o religiosi, modellato dai pregiudizi, accecato dalle passioni ed immerso in una sostanziale cecità esistenziale può, attraverso l’iniziazione, che trasmette un’influenza spirituale ed insegna un preciso metodo di lavoro, ritrovare il filo perduto della propria identità, redimersi dai propri vizi, riscattarsi e realizzare, pur nell’approssimazione verso l’assoluto, la pienezza della condizione umana.
In una parola, diventare un “Uomo” nel senso espresso da Kipling nella famosa poesia ‘Se’.
Così, lo sgomento fisiologico, che proverebbe normalmente ogni essere umano di fronte a una simile tragedia, qui da noi è decuplicato, gravato, in sovrappiù, da un devastante senso di colpa individuale e collettivo – spesso inconfessato – che in una Comunione come la nostra diventa un grido che distorce l’universo e mette in dubbio ogni certezza come nel celebre dipinto l’‘Urlo’ di Munch.
Contemporaneamente una voce sembra dirci: un accadimento del genere qui da noi non può, non deve avvenire, perché l’amore verso i fratelli disperati, in sinergia con gli strumenti di autocoscienza possono tutto. Anche il miracolo della risalita dal baratro.
Ma sappiamo che non è così. Chi ama spera e crede. Ma nessuno può cambiare l’altrui destino. Tutto si può ottenere, a patto che il soggetto “malato” sia disponibile e motivato a risorgere. Certe porte si aprono solo dall’interno.
Una fraintesa cultura cattolica prescrive che dobbiamo aiutare il prossimo a tutti i costi. Ma la realtà ci dimostra che non potremo mai riuscire a curare il “drogato” se il “drogato” non intende redimersi. Soccorrere il prossimo è un atto straordinario, un dovere del cuore ma occorre fare attenzione a non cadere nella “sindrome del Salvatore”.
La Tradizione ci mostra, attraverso mille declinazioni di psicodrammi sacri, quanto all’idea di un’evoluzione positiva, come sospinta da un impulso d’abbrivio, si opponga la possibilità di un’involuzione, di un avvitamento catastrofico.
Tu potrai degenerare in forme inferiori animali, oppure, secondo la decisione del tuo animo, essere rigenerato verso ciò che è superiore e divino.
Pico della Mirandola, De hominis dignitate.
Non so, sinceramente, se certe parabole esistenziali siano determinate da un tragico e cieco destino, decise dal Karma o riscattabili dalla Grazia. Certo è che la Tradizione non ci arriva sempre in forma “pura” e può essere contaminata da elementi umani, troppo umani, anche quando a soffiare nella sua ancia sono i “maestri”, i grandi iniziati. Anch’Essi, a volte, si portano dietro un irrisolto gravame metallico di difetti e di pregiudizi non risolti.
Per una volta suonano improprie le parole di un grande, René Guénon, quando stigmatizza i cosiddetti “misfatti della psicanalisi”. Non è sempre detto che la Scienza, anche in epoca di Kali Yuga, non sia un dono di Dio. E una soluzione di cui può, deve, fruire l’uomo sofferente, angosciato, stritolato nelle spire del Tempo Oscuro.
A volte la chimica, il farmaco antidepressivo – anche se pharmakon in greco vuol dire veleno -, unitamente alla psicoterapia, possono impedire decisioni irrevocabili e distruttive per se stessi e per i propri familiari. L’Ego è un mostro duro e indomabile che, spesso rinforzato da una vergogna super-egoica non ci permette di aprire uno spiraglio in cui possa entrare la forza del Logos e la carezza dell’Agape.
Smarrire il senso della vita è un attimo. Il cedimento a una mostruosa e seducente Sirena. Scavalcare quell’attimo che possiamo facilmente incontrare nella vita, legandosi come Ulisse all’albero della nave, dovrebbe essere uno dei primi doveri dell’iniziato.
Il suicidio del Guerriero, nella Tradizione giapponese si chiama seppuku, un “modello” in cui il samurai, per uscire a testa alta da una sconfitta – in chiave moderna penso all’harakiri di Yukio Mishima, fortemente connotato da elementi autodistruttivi – decide di morire in maniera atroce dimostrando alla propria famiglia e ai nemici tutto il suo “coraggio” e “onore”.
Ma noi non siamo giapponesi. Siamo occidentali. Seneca, pur morto suicida costretto dall’ordine di Nerone, ha scritto che
l’uomo coraggioso e saggio non deve fuggire dalla vita ma uscirne. Si eviti anzitutto quel sentimento che si è impadronito di molti: il desiderio anelante di morire.
Salire sulla scala di Giacobbe è un cammino interminabile. Precipitare nel vuoto è un attimo.
Sul mistero della vita e della morte di questo nostro fratello scenda il velo amorevole della nostra tristezza infinita e la forza di catena lo tragga a noi per reintegrare la sua presenza nel nostro eggregore.
Autore Hermes
Sono un iniziato qualsiasi. Orgogliosamente collocato alla base della Piramide. Ogni tanto mi alzo verso il vertice per sgranchirmi le gambe. E mi vengono in mente delle riflessioni, delle meditazioni, dei pensieri che poi fermo sul foglio.