La Generazione Z è la prima ad aver attraversato la pubertà con in tasca un portale verso una realtà alternativa eccitante, ma pericolosa.
È la prima ad aver sperimentato la transizione da un’infanzia basata sul gioco ad una basata sul telefonino, ma anche da un’infanzia libera ad una iper-controllata.
Mentre gli adulti hanno infatti iniziato a proteggere eccessivamente i bambini nel mondo reale, li hanno lasciati privi di sorveglianza in quello online.
È stato un susseguirsi drammaticamente incisivo e, direi, violento di questo passaggio storico generazionale nel quale l’adulto ha commesso il grave errore di accettare di vedere la pioggia, convinto che, chiuso nelle mura di casa, sarebbe stato protetto da ogni tempesta; eppure, a quell’abitazione mancava il tetto.
La Generazione Z sta oltrepassando il confine dell’ignoto accompagnata dalle nostre complicità; la stiamo tenendo per mano perché, come lei, anche noi siamo ciechi e non vediamo cosa stiamo attraversando.
È un disagio infinito.
Infatti, gli studi sulla condizione dei ragazzi del Terzo Millennio, nel nostro Paese, segnalano una situazione sempre più preoccupante.
I comportamenti auto ed etero aggressivi sono in drammatico aumento, così come in crescita appaiono la dispersione scolastica, l’assunzione di droghe e di alcool e, in generale, il disagio giovanile: gli ultimi dati affermano che ormai, nelle scuole superiori, un adolescente su due fa uso di psicofarmaci.
L’amore non si può spiegare, solo i poeti possono custodirne il segreto.
Frasi seducenti come questa di Novalis ci hanno fatto disertare l’educazione sentimentale.
I comportamenti violenti, il riaffacciarsi di dinamiche relazionali ritenute superate tra i ragazzi, portano invece il nome dell’analfabetismo sentimentale.
Se le emozioni ci vengono assegnate dalla natura, i sentimenti sono figli della cultura. Lo vediamo nelle classi, sui treni, sui social, dove dilagano comportamenti guidati da sentimenti ‘maleducati’.
I sentimenti nocivi alla base delle trappole dell’amore, di fatto, germinano già in giovanissima età per poi esplodere nella vita adulta in forma di narcisismo, manipolazione, dipendenza affettiva, controllo ossessivo e adescamento, violenza e stereotipi di genere.
A tal proposito, gli adolescenti sono ancora più esposti a percepire i pericoli emotivi rispetto agli adulti, in quanto il loro ruolo nei processi decisionali della famiglia non è al momento consolidato e riconosciuto appieno, il senso di valore del proprio sé non è ancora stabile e ogni situazione in cui si sentono svalutati o giudicati rappresenta una vera e propria minaccia per la loro autostima.
La rabbia adolescenziale può comunicare molte cose, come per esempio il profondo disorientamento del giovane di fronte ad una fase della vita molto confusa in cui ci si allontana inesorabilmente da un periodo ben conosciuto ma che inizia a ‘star stretto’ come l’infanzia, ad una sconosciuta, fonte di interesse ma anche di inquietudine in cui non si sa ancora cosa ci aspetterà, ossia l’età adulta.
Oramai, la situazione è così grave che ci stiamo appiattendo davanti a notizie drammatiche e violente come quelle di qualche settimana fa che hanno visto un ragazzo sterminare, apparentemente senza alcuna motivazione – non ve ne sono a prescindere sia chiaro – la sua intera famiglia.
Sembra che all’orrore ci stiamo abituando e allora the show must go on, il circo apre le sue tende ad esperti, tuttologi, psicologi, specialisti, influencer e così via.
Nel frattempo, al sangue si aggiunge la ruggine nelle azioni da introdurre con urgenza, le Istituzioni si pongono le domande e si azzuffano, i genitori si selfano, i ragazzi emulano i missionari del male comune presenti sui social e nulla cambia.
Non è uno scontro ma un conflitto tra adolescenti e genitori: è vero, lo sappiamo, che i contrasti tra figli e genitori sono molto comuni nell’adolescenza e le cause sono da ricondurre al risveglio di nuovi bisogni fisiologici e psicologici quali il desiderio di autonomia, l’eccitazione motoria ed un particolare interesse per l’immagine del proprio corpo.
L’aggressività contro i genitori è stata attribuita anche a fattori di natura sistemica ,come le modalità comunicative disfunzionali in famiglia, l’aver assistito ad episodi di violenza tra genitori, l’inadeguata canalizzazione di emozioni negative come la rabbia.
Come scrive lo psichiatra italiano Vittorino Andreoli:
La relazione con il genitore è chiaramente di natura nevrotica, basata su un legame di dipendenza in gran parte inconscia, che rende la presenza dell’altro necessaria e condizionante […] vi sono odio e amore, una relazione dalla quale non si può scappare perché il nodo non è logico-razionale ma radicato nel profondo della psiche.
Diventa impossibile cancellare l’altro, la cui presenza è forte come un magnete, non lo si può eludere, lo si può solo uccidere.
Perché quando un individuo si sente così oppresso da compiere un gesto tanto estremo emerge una chiara difficoltà nel gestire le proprie emozioni e nel trovare strumenti adeguati ad affrontare il conflitto interiore.
Tuttavia, questa situazione denuncia anche qualcosa di più grave: la presenza di una mente profondamente disturbata, incapace di distinguere tra realtà e percezione distorta della stessa.
Troppo spesso le famiglie si concentrano sul benessere materiale, trascurando l’importanza di insegnare ai figli come gestire la rabbia, la frustrazione e il dolore.
La capacità di riconoscere ed affrontare queste emozioni è fondamentale per prevenire che il disagio interno si trasformi in azioni distruttive.
In questo caso, ciò che emerge in modo inquietante è che il pericolo non proviene dall’esterno, ma nasce dentro le mura domestiche, nelle emozioni non elaborate e nelle dinamiche familiari irrisolte.
Sempre più spesso i fatti di cronaca ci restituiscono un quadro di ragazzi che faticano enormemente ad esprimere gli aspetti emotivi, i conflitti e i sentimenti più disturbanti relativi al proprio contesto familiare e amicale in qualche cosa che diventi simbolo, parola e condivisione.
La relazione viene annullata e si ricorre al gesto disperato, come quello che è accaduto settimana fa a Paderno Dugnano (MI). L’unica risposta, che spesso non piace a noi adulti, ma che possiamo trarre da queste vicende è che non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche più disturbanti che hanno i ragazzi.
Dobbiamo trasformare ogni terribile vicenda in un’occasione di sviluppo, crescita e possibilità di mettere in parola.
Quando si consente ad un adolescente di verbalizzare il proprio stato d’animo non vuol dire che gli si dà ragione solo perché lo si ascolta. Vuol dire gli si dà legittimità di parola e di pensiero, qualunque esso sia.
Bisogna essere capaci di identificarsi con i figli e farli essere ciò che sono: mi viene da pensare che i ragazzi sono soli perché faticano a vivere e a far capire le proprie passioni.
Spesso, senza volerlo, mettiamo a tacere le emozioni che la società e noi stessi viviamo come un affronto se vengono provate dai nostri figli: tristezza, rabbia, tutti quei sentimenti che noi genitori viviamo come improponibili. Quelli di cui sempre più spesso i ragazzi hanno bisogno di parlare, quelli che disturbano.
In alcuni casi i segnali arrivano ma la verità è che si vede tutto post mortem. Dopo vai a vedere i messaggi, la vita, la musica che ascoltava, Telegram, i videogiochi e si cercano dei messaggi.
Quando un essere umano, anche un figlio, ha un progetto che coltiva, non è vero che li puoi intercettare. Purtroppo, l’uomo può mantenere dei segreti per tutta la vita, anche i più terribili. Quindi, questa ricerca, secondo me, ci svia dall’unica vera possibilità: creare delle condizioni per cui qualcuno riesca a parlarne. Poi bisogna vedere a chi. E questo non venga dato per scontato.
Il dolore, i sentimenti, i conflitti che ci sono in adolescenza, se non diventano parola, molto spesso diventano agìto. Molto spesso agìto violento verso sé stessi: disturbo alimentare, ritiro sociale, autolesionismo. Oppure una violenza verso gli altri.
Il tema vero è essere in grado di creare delle condizioni, di fare delle domande, soprattutto quelle che più ci disturbano. Poi, non è detto che il figlio ci risponda, ma deve sapere che può parlare di quei sentimenti. Che può parlare senza avere la paura di essere condannato, a prescindere.
Ad esempio, bisogna chiedere ai propri figli come si vedono davanti allo specchio, se brutti o belli, ed accettare la risposta. Senza usare banalità, ma affrontando quella richiesta con seria e tenera sincerità, altrimenti il rischio che si corre è che nostro figlio vada a cercare altrove la risposta, con la terribile conseguenza che sia Dottor Internet a rispondere.
Facciamo nostre le parole di Paolo Crepet:
I ragazzi devono imparare a sognare. E noi? Noi dobbiamo essere istruttori del loro volo.
Magari basterebbe anche solo provare a volare insieme.
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.