Home Rubriche Pensieri di un massone qualsiasi Il suonatore Jones canta per sempre l’amore per la libertà

Il suonatore Jones canta per sempre l’amore per la libertà

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Di solito la televisione mi fa addormentare. Di sera tardi ad un volume giusto, con la complicità del divano, di solito verso le 23. La televisione è meglio di qualsiasi benzodiazepina, molecola che mi sono sempre rifiutato di assumere anche nei peggiori momenti di tensione.

La voce dell’Angelo mi ha sempre spinto verso l’autonomia e la lucidità aiutandomi a vincere ogni volta la tentazione della dipendenza, almeno quella chimica.

La televisione, intesa come ipnotico elettrodomestico, è quasi piacevole come la melissa o la passiflora. O il tiglio o il luppolo. Con la non trascurabile differenza che tali rimedi erboristici hanno nomi più fatati e strutture spagiriche affatto meravigliose.

Insomma, ero già in quella fase di pre-sonno in cui i pensieri lambiscono il perimetro dei sogni e la coscienza si interiorizza e precipita lentamente in una corporeità sempre più sottile.

D’improvviso mi sovvengono i morti di questo terribile periodo di pandemia. Una distesa di epitaffi mai scritti. Un’ossessiva teoria di sacchi mortuari, di tombe e di fosse comuni. E più di tutte, l’immagine incancellabile del passaggio dei camion militari con le bare.

Come in un clic mi risuona nella mente un grande brano di De André, un massone mancato. O forse no. Vado su YouTube. Lo trovo, lo riascolto.

È ‘Il suonatore Jones’, tratto dall’album del 1971 ‘Non al denaro, non all’amore né al cielo’, riscrittura – adattamento al linguaggio ed al clima dell’Italia degli anni settanta, dell’‘Antologia di Spoon River’, una serie di epitaffi poetici che lo scrittore americano Edgar Lee Masters pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul ‘Mirror’ di St. Louis. Come è noto, in ogni poesia la voce di un defunto racconta la propria vita con lirica sincerità.

De André scelse nove delle 243 poesie e le trasformò, con la collaborazione di Giuseppe Bentivoglio, in canzoni legate al tema dell’invidia, molla primaria di ogni lotta di potere, e a quello della scienza, generatrice di contrasto tra l’aspirazione del ricercatore e la repressione operata del Sistema.

I primi versi sono lancinanti:

In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa
sentivo la mia terra
vibrare di suoni
era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora
come pensarla migliore
libertà l’ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro
a cielo ed amore
protetta da un filo spinato
libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze a un ballo
per un compagno ubriaco…

Il ricordo si riversa, “cola” nel presente come in uno stampo perfetto: Faber, Fernanda Pivano, la compianta traduttrice dell’opera, la scoperta di Edgar Lee Masters e della sua meravigliosa, antiborghese ‘Antologia’, miele per la mia generazione di utopisti contestatori non violenti.

Oggi come ieri risuona il tema sempiterno della frustrazione individuale provocata dall’abuso di potere, della sopraffazione generata dall’invidia aggressiva, del Sistema che soffoca le istanze di emancipazione. E che proibisce – non certo il metafisico Dio del Cielo – di mangiare la mela della Libertà.

In questo teatro della memoria sfilano gli indimenticabili personaggi dello Spoon River, i morti – vivi che fanno irrompere la cruda verità della poesia nel nostro mondo di vivi – morti: un ottico “spacciatore di lenti”, un giudice nano, frustrato e vendicativo, un matto, un blasfemo, un medico che da bambino voleva “guarire i ciliegi” e da grande si ritrova “bollato per sempre truffatore imbroglione”, un malato di cuore che rende l’anima sulle labbra dell’amata.

E un chimico, che dopo aver esercitato in vita il potere di

sposare gli elementi senza farli reagire

ora confessa:

gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore.

Ma più di tutti un verso mi trafigge, quello finale, appunto, del Suonatore Jones.

Lo ripropongo:

Finì con i campi alle ortiche
finì con un flauto spezzato
e un ridere rauco e ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.

Il suonatore Jones è il personaggio che più di ogni altro ha rispecchiato il daimon di De André.

Per riprova, concludo con un frammento tratto dall’intervista che il 25 ottobre del 1971 Fernanda Pivano fece a Fabrizio.

– Pivano: Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel ’71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

– De André: Non c’è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per puro divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutto altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.

Grazie Edgar, grazie Fernanda, grazie Faber. Dormite in pace sulla collina e continuate a sognare e a cantare per sempre l’amore per la libertà.
Siate certi che il vostro sogno poetico può ancora contribuire a farci ridestare dal sonno interminabile della Ragione.

Soprattutto oggi che ci sentiamo bloccati in una realtà irreale che accompagna questi giorni cupi e inestricabili. Una caverna oscura dove non si scorge e non si strologa il futuro. Forse perché abbiamo perso, soprattutto noi Massoni, la capacità di progettarne uno nuovo.

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Autore Hermes

Sono un iniziato qualsiasi. Orgogliosamente collocato alla base della Piramide. Ogni tanto mi alzo verso il vertice per sgranchirmi le gambe. E mi vengono in mente delle riflessioni, delle meditazioni, dei pensieri che poi fermo sul foglio.