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Il Santuario di Loreto a Praga

Santuario di Loreto a Praga Santa Casa


Gennaio 2015

Il pomeriggio iniziava il proprio cammino verso il buio mentre la pioggia portava giù il cielo. Il vento era forte e il santuario fermava quello stralcio di natura che batteva con forza sulle sue mura. Il cortile un po’ alla volta si velava di bianco rendendo i colori di quell’inverno pieni e definiti. Lì svettava la piccola casa, copia di quella presente in Italia a Loreto.

Si innalzava dal verde scuro del prato, dalle pozze d’acqua, dalla terra smossa che si rimescolava seguendo gli strappi del cielo. Boati e crepitii lontani venivano già come lamenti di giganti. Forse fu con il loro aiuto, con l’aiuto di quei giganti, che furono realizzati il monastero e la sua casa. Ma la storia pare sia andata diversamente e ha inizio nel 1634 quando i lavori, terminati nel 1746, furono intrapresi per iniziativa di Caterina Benigna di Lobkowicz, nobildonna ceca devota alla Santa Casa di Loreto la cui leggenda voleva si diffondesse anche tra la popolazione boema.

L’opera ebbe anche l’appoggio di Ferdinando II d’Asburgo che intendeva riportare il paese sotto le chiavi di San Pietro. Fu chiamato l’italiano Giovanni Battista Orsi per la realizzazione della Santa Casa, di cui fu architetto e capomastro. Questa terminò nel 1627 ed è l’unica opera che gli si possa attribuire con certezza.

Anche per chi non ha fede, o è di fede differente ma ha visitato la casa della visitazione a Loreto, avverte subito il sentirsi all’interno di una copia, per quanto possa avere quasi 400 anni. Si avverte quel particolare formicolio arrivare fino alle narici. Ma, seppur copia, si ha l’impatto improvviso e inaspettato che suscitano alcuni luoghi religiosi in cui ti senti avvolgere lo spirito. Il momento, poi, rendeva ancora più facile il lasciarsi trasportare nel cuore di quella casa.

Il cielo continuava a sfogare la propria rabbia avventandosi su quella terra. Non si vedevano fenditure nell’arazzo cucito dall’acqua. Sotto i nostri piedi si estendeva una cripta. Si apriva una voragine nella terra per custodire i resti carnali delle donne e degli uomini appartenuti alla famiglia di Caterina. Il vento gridava attraverso le feritoie e i passaggi per l’aria posti intorno alla struttura. Il vento portava i lamenti di quelle anime ancora lì sotto intrappolate, legate a quella terra ora umida, come custodi perenni della sua sacralità.

Anime che ricordano le leggende legate a questo luogo, ad iniziare dalla piazza antistante il santuario, Loretánské náměstí, che, secondo la tradizione, era, o forse lo è ancora, l’ingresso per gli inferi. Pare che qui sia stata risucchiata nel mondo sotterraneo la principessa pagana Drahomíra. A ricordare questa storia si racconta che fino al XVIII secolo sia stata lì presente una colonna dedicata proprio a Drahomíra. Come l’anima della principessa tante altre furono quelle che attraversarono il portale perdendosi per l’eternità in questo luogo.

Intorno, i chiostri che circondano la Santa Casa si dissolvevano nella pioggia.
Si spezzavano i colonnati, si staccavano dalla struttura del monastero che scompariva poco alla volta. La luce giocava con i nostri occhi mostrando strani e mutevoli contorni di quel luogo. Sette le cappelle che furono erette tra il XVII e il XVIII secolo, una di queste divenne nel 1737, su progetto di Christoph Dientzenhofer, la chiesa della Natività di Nostro Signore.

Dopo la sua morte avvenuta nel 1722, l’opera fu continuata dal figlio Kilian Ignaz e da J. G. Aichbauer, figliastro di Christoph, che ebbero tra i finanziatori la contessa Maria Margarethe Czernin von Chudenitz.

Si cammina nel pieno barocco boemo fino a quando non ci si ritrova al cospetto dell’altare con ai lati due scheletri completamente vestiti con abiti femminili, le ossa delle sante spagnole Marcia e Felicissima. I volti coperti da maschere di cera sospesero quel momento tra il grottesco e il surreale. Sembravano fissare i miei occhi attraverso quella cera, sembravano volerli penetrare per scavarmi dentro.

Una musica strana iniziò il proprio cammino dal campanile. Erano le note delle ventisette campane che componevano il carillon, posto al suo interno, commissionato dal ricco mercante Eberhard von Glauchau. Le campane furono realizzate tra il 1683 e il 1691 ad Amsterdam dal fonditore Claude Fremy, o Claudius Fromm, ed ognuna di esse ebbe un mecenate: la prima fu scelta dall’imperatore Leopoldo I.

In seguito l’orologiaio praghese Peter Neumann regolò il carillon unendolo ai meccanismi dell’orologio campanario, che suonò sopra i cieli di Praga per la prima volta il 2 settembre del 1695, facendo danzare le anime che, si dice, qui si fermino per riposare prima di proseguire il proprio cammino verso il paradiso.

Un secondo portale, quindi, il primo, orizzontale, conduce nel regno del sottosuolo, il secondo, verticale, si innalza verso i cieli. Forse fu per controllare il primo che si decise di erigere proprio qui un santuario. Qui, in questo particolare luogo vicino alla Nový Svět, la strada dove risiedevano gli alchimisti di Rodolfo II, fu innalzato un cammino verso il cielo per ripristinare forse un equilibrio andato perduto. Probabilmente furono quegli stessi alchimisti a suggerirne e indirizzarne la costruzione.

Non è un caso, dunque, che qualcuno, ancora oggi, interpreti il nome di Nový Svět come “Altro Mondo” piuttosto che seguirne la traduzione letterale di “Nuovo Mondo”. Qui si realizzò non solo un mondo nuovo, ma anche un mondo altro in cui si congiungevano le porte per i regni inferiore e superiore.

Ero ancora seduto su di una panca di legno proprio di fronte l’altare quando la melodia del carillon irruppe delicata attraverso quei banchi. Tornai a guardare per un istante ancora una delle donne con la maschera di cera. Un’anziana signora si era seduta al mio fianco.

Il vestito nero le copriva quasi del tutto il corpo e il velo, anch’esso nero, lasciava intravedere solo le piccole mani congiunte davanti la bocca. Un rosario pendeva dalle dita oscillando seguendo gli impercettibili movimenti delle labbra. Non so che volto avesse. Non conosco il colore dei suoi capelli. Anche gli occhi erano a me nascosti dal mosaico della pelle.

La musica continuò fino a svanire come un sussurro nella aria densa di quel luogo, portando con sé l’anziana donna e il ricordo delle sue preghiere.

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!

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