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Il ritorno dei Blue Stuff, quel pezzo di Chicago nato a Napoli

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Blue Stuff


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Ieri sera al Teatro Bolivar la reunion della storica blues band partenopea con la formazione originale – Durante i saluti finali, lo sfogo di M’Barka Ben Taleb dal palco: “Questi artisti hanno gli attributi, ma poco spazio”

Nel suo bel libro La voce di Bob Dylan – una spiegazione dell’America (Feltrinelli, 2011, 398 pp.), Alessandro Carrera scrive che

nel blues classico degli anni venti e trenta non c’è nessuna distanza che separi il performer dalla performance. La perentorietà con cui Charley Patton o Robert Johnson cantano le loro scarnissime parole è così assoluta, così imperscrutabile da far sembrare impossibile che quelle fossero persone che potessero alzarsi, metter via la chitarra e avere una vita al di fuori di quelle poche registrazioni nelle quali è scolpita la loro voce.

Poste le debite distanze temporali e geopolitiche, al netto di tutti i distinguo del caso fra i personaggi a confronto, le parole di Carrera descrivono perfettamente la sensazione che abbiamo avuto ieri sera al Teatro Bolivar di Napoli, assistendo allo spettacolo dei Blue Stuff, riunitisi nella formazione dei tempi d’oro per la prima volta dopo vent’anni.

Con il sold out sfiorato di un soffio e l’entusiasmo del pubblico alle stelle, i cinque vecchi leoni, Mario Insenga, il fondatore, Enzo Caponetto, Gennaro Pasquariello, Renato Federico e Guido Migliaro, hanno ripercorso il loro repertorio di blues classici producendo l’effetto di una locomotiva a vapore che, lanciata a tutta velocità dagli albori del secolo scorso verso il tempo presente, ruggisca ancora in tutto il suo affascinante fracasso di sferragliamenti, sbuffi e fischi. E sulle cui carrozze, naturalmente, campeggi quel logoro cartello recante la dicitura della destinazione: “Chicago-bound”, in direzione di Chicago. Proprio come il nome del primo disco dei Blue Staff, distribuito da Cheyenne Records nel 1990, che sintetizza efficacemente l’intera loro storia, dalla nascita nel 1982, in pieno periodo Neapolitan Power, sottolineiamo, alla rinascita odierna, che narra di un lungo viaggio in cui partenza e destinazione coincidono. Chicago, appunto; ma s’intenda con questo nome, che suona così strano e al contempo familiare a noi italiani, non tanto un luogo geografico, una città mille volte protagonista di film o, peggio, di triviali barzellette, bensì l’omonima, leggendaria scuola di blues sviluppatasi tra gli anni quaranta e i cinquanta del 1900.

Il pubblico si fa dunque volentieri graffiare dalla possente voce à la B.B. King di Mario “blue train” Insenga che, con incredibile energia, si lancia in interpretazioni di celebri blues, quali WPA, Boom Boom Boom, Folsom Prison Blues, accompagnata dai suoi vecchi compagni, tutti in splendida forma non solo come musicisti, ma anche come intrattenitori naïf: le bonarie frecciate e gli sfottò reciproci, rigorosamente in napoletano, sono stati parte integrante ed estemporanea dello spettacolo, calando il pubblico in un’atmosfera di ironia cameratesca dall’effetto irresistibilmente divertente, che nulla aveva di nostalgico né di autocelebrativo, contrariamente a quel che l’abusato termine “reunion” poteva far temere.

Non sono mancate le canzoni in cui il blues in napoletano ha portato alla memoria del pubblico la collaborazione dei Blue Stuff con Edoardo Bennato che, ispirato dall’energia della stessa blues band partenopea, ideò il suo alter ego blues, Joe Sarnataro, dando alla luce l’album È asciuto pazzo ‘o padrone” (Cheyenne Records, 1992).

Tra il pubblico si scorgevano diverse teste canute, che tacitamente vantavano il loro primato di veterani tra i sostenitori della band, ma anche ragazzi e ragazze nel fiore degli anni che, ormai compiaciute prede del demone del Blues (chissà quanto avevano dovuto attendere questo momento!), non hanno saputo resistere alla tentazione di abbandonarsi ad improbabili danze e che, pudicamente confinati in fondo alla sala, hanno rappresentato al Bolivar, inconsapevolmente, uno spaccato di Voodoo, fenomeno coevo al blues delle origini, e gli hanno allo stesso tempo sottratto per una volta, senza che ciò destasse alcuno scandalo, una certa aurea di contenuta aristocrazia di cui ogni teatro dovrebbe essere tempio: anche questo è blues.

Lo spettacolo è stato aperto dai Blindur, un duo nato nella primavera del 2014 da Massimo De Vita, cantautore, polistrumentista e produttore, e Michelangelo Bencivenga, polistrumentista, la cui esibizione è stata molto apprezzata dal pubblico.

In chiusura, per i saluti finali, sale sul palco il direttore artistico del Bolivar, l’artista di origini tunisine M’Barka Ben Taleb che, dopo aver ricordato al pubblico la rassegna “Le insolite note” di cui ExPartibus si è occupata nei giorni scorsi, si è lasciata andare ad un appassionato sfogo a favore dei talenti nascosti per i quali è sempre più difficile trovare collocazione e occasioni di visibilità presso il pubblico.

“Mi sento piccola accanto alla grandezza dei Blue Stuff”, dice commossa, poi prosegue: “Ci sono artisti che hanno bisogno del vostro sostegno e di essere portati come dei santi, perché per me sono i veri santi”.

E poi rincara la dose nei confronti delle istituzioni: “Io vado un po’ controcorrente, molti teatri avrebbero la possibilità di ospitare i nostri artisti, sia italiani sia stranieri, invece girano sempre gli stessi nomi, è sempre la stessa minestra. Porterò al Bolivar dei personaggi di tutto rispetto, dei veri artisti. Il grande produttore o il grande politico vende pomodori per rose. I miei artisti sono delle rose che non hanno trovato possibilità, ho voluta offrirne loro una attraverso il Bolivar”, ha concluso la musicista tra gli applausi del pubblico.

Capita spesso, quando si pensa al blues o ad altri generi musicali importati dall’estero, in particolare dall’America o dall’Inghilterra e poi adattati a dimensioni altre, siano pur nobili come quella partenopea, che sorga, nei periodi più disincantati del nostro vivere quotidiano, la domanda se tali adattamenti diano realmente vita, a seconda dei casi, a qualcosa di nuovo, di originale e se queste “creature meticcie” costituiscano davvero un valore aggiunto al genere originario cui si ispirano. È capitato, confessiamolo, anche a chi scrive.

Ebbene, assistere ad un concerto dei Blue Stuff, sentir suonare e cantare in chiave blues di corna, di fallimenti, di sesso e di omicidi in slang americano e in napoletano da questi cinque attempati ragazzi, ci ha restituito un sorprendente senso di verità, di autenticità. E ha fornito, senza dubbio, una risposta all’arcano di cui sopra: una “creatura” nuova, sempre uguale a se stessa e sempre nuova, non meticcia ma originale perché indissolubilmente legata al vissuto di chi la genera (la performance che è performer e viceversa di cui scrive Carrera, citato in cima a questo articolo), esiste davvero.

In un mondo ipertecnologico che sembra sempre meno interessato alle proprie radici, impegnato com’è ad identificarsi in un futuro che è sempre di là da venire, è davvero rassicurante sapere che i Blue Stuff “still got the blues”, posseggono ancora il Blues.

Autore Michele Ferigo

Michele Ferigo, napoletano, classe 1976, si occupa d’arte da sempre. È musicista, compositore, disegnatore e film-maker.