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Il ritorno a Zion

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La guerra italo-abissina


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Io dico vola via verso casa, a Zion, vola via verso casa…
Una splendida mattina, quando il lavoro sarà terminato, l’uomo volerà via verso casa.
Bob Marley, ‘Rastaman Chant’

Qualche giorno fa mi è capitato di riprendere tra le mani il grande volume con la copertina nera in cui sono rilegati vari numeri de ‘La Guerra Italo-abissina’ pubblicata nel 1896 dai “Fratelli Treves”. Stupende le stampe litografiche dei militari di entrambi gli schieramenti, degli invasori e dei vessati. Grandi immagini del Negus Menelik II, di sua moglie la regina Taitu, dei suoi Ras e soldati. Immagini di vita quotidiana nei villaggi dell’Etiopia e dell’Eritrea, delle chiese, dei paesaggi, ma anche delle azioni condotte dai militari italiani con le uniformi coloniche.

Il volume apparteneva alla piccola biblioteca privata di Monsignor Francesco Maria Schettino, zio di madre. Ricordo che spesso da bambino mi immergevo in quelle pagine immaginando i colori, gli odori, la lingua parlata in quelle immagini in bianco e nero dal tratto sottile. Solo anni dopo ho preso coscienza della tragedia che in realtà quelle pagine raccontano.

Ero bambino e leggevo Salgari e Verne. Le pagine fragili, ingiallite dal corso del tempo. Quelle pagine grandi racchiuse nella copertina nera impolverata davano concretezza ai viaggi compiuti insieme ai Pirati della Malesia o alle Tigri di Mompracen. Viaggi che mi portavano dal centro della Terra alla Luna, per poi tornare in fondo ai mari e da lì al mondo governato dalla mente di Robur.

Vedevo i paesaggi e gli ornamenti di Ras Maconnèn e la mia mente fantasticava. Era un mondo a me nuovo e lontano dal tempo che mi portò ad avere un piccolo fremito quando nel 2003 sorvolai parte dell’Etiopia facendo poi scalo ad Addis Abeba. Sotto i miei piedi c’era la terra vissuta in quelle vecchie pagine, l’Abissinia degli imperatori discendenti da David della tribù di Giuda.

Tafarì Maconnèn, figlio di Ras Maconnèn si insediò nel 1930 sul trono imperiale di Etiopia con il nome di Heilè Selaissè I, il Negus Negesti, il Re dei Re. Come capo aveva il titolo di Ras, Ras Tafari appunto. Il nome mi ha portato indietro di qualche anno, quando su un taccuino iniziai ad interessarmi alla cultura Rasta. Non una moda, non un mettersi in mostra in maniera “alternativa”, ma una vera e propria cultura spirituale.

Primo predicatore del Rastafarianesimo fu Leonard Persival Howell, conosciuto con il suo nome spirituale Gangunguru Maragh, soprannominato anche “Il Primo Rasta”. Giamaicano di classe 1898, ebbe al suo fianco nella fondazione del movimento H. Archibald Dunkley, Robert Hinds e Joseph Nathaniel Hibbert. Era il 1933 quando colse la potenza simbolica dell’incoronazione sul trono d’Etiopia di Heilè Selaissè I per la diaspora che aveva colpito il continente africano. La sua predicazione si incentrò soprattutto sull’identificazione di Selaissè come il Messia ritornato sulla terra, predicazione che fu poi la base per il suo libro ‘The Promised Key’.

Particolare venerazione, inoltre, si ha per la moglie di Selaissè, l’imperatrice Menen, considerata Madre della Creazione e Regina dei Re, nonché prima creatura dopo Cristo.
I suoi seguaci avevano, ed hanno ancora oggi, come riferimento gli insegnamenti dell’antica tradizione cristiana ortodossa etiopica nonché i precetti loro dettati da Heilè Selaissè, completando in questo modo la rivelazione storica della nuova reincarnazione di Cristo sulla terra, così come narrato nell’Apocalissi di San Giovanni.

Da quel momento il seme del Pan-Africanismo e della coscienza di tutti i neri d’Africa dispersi, soprattutto nei territori occidentali, iniziò a germogliare. Nel 1940 fondò il villaggio di Pinnacle a Sligoville, in Giamaica, la prima forma di comunità Rasta socialmente strutturata, fondata in cima ad una collina, da qui il nome. Una comunità autosufficiente in cui Howell istituì la propria forma di socialismo, ispirato dalle idee del politico e sindacalista giamaicano Marcus Mosiah Garvey, suo amico. Per quanto possa sembrare per certi versi molto vicina al fascismo e, in generale, alle destre “bianche” della prima metà del Novecento, il suo idealismo va calato in quel particolare periodo in cui le persone di colore non avevano diritti ed erano praticamente ancora schiavi di un mondo che aveva strappato loro la terra.

Il pensiero di Garvey incitava i neri a ribellarsi allo schiavismo imperante e al ritorno in Africa, luogo in cui sarebbe nata la Nazione Nera, basata su un estremo nazionalismo che potesse rendere indipendenti le strade dei bianchi e dei neri. Per attuare questo progetto negli anni ’20 fu scelta la Liberia, paese nato nei primi venti anni del XIX secolo grazie all’American Colonization Society che, dopo aver acquistato vari terreni in quella regione dell’Africa occidentale, aiutò migliaia di ex schiavi, o da essi discendenti residenti negli Stati Uniti, “a tornare” nella propria terra d’origine, come primo stato in cui iniziare la costruzione delle infrastrutture, strade, università, ferrovie, ospedali, che avrebbero reso possibile tale immigrazione. Purtroppo Garvey dovette scontrarsi con i grandi interessi dei governi occidentali in Liberia per poi soccombere abbandonando, così, il progetto.

Per non perdere la strada finora tracciata si ritorna a Heilè Selaissè, a Ras Tafari, considerato, come si diceva, l’ultima incarnazione di Gesù Cristo sulla terra. Il Negus era il diretto discendente della tribù di Giuda attraverso la nonna paterna il cui sangue aveva origine da re Salomone, figlio di David, e dalla regina Makeda di Saba, Etiopia. Dalla loro unione nacque Bayna-Lehkem, detto anche Ebna la-Hakim, cioè “Figlio del Saggio”, che salì al trono di Etiopia con il nome di Menelik I o Menyelek I, capostipite della famiglia imperiale etiope.

Le radici affondano lontano nel tempo, nel giudaismo delle origini come raccontato nel “Kebra Nagast”, la “Gloria dei Re”, scritto a più riprese tra il IV e il VI secolo dopo la nascita di Cristo, con una revisione e omogeneizzazione definitiva del XIV secolo ad opera di Nebura’ed di Axum. Libro sacro per i Rasta posto di fianco alla Bibbia, nelle proprie pagine si conserva la memoria di antiche conoscenze che qui hanno trovato un luogo sicuro per la propria trasmissione.

Dall’Antico Testamento al Nuovo, dal Corano ai testi rabbinici fino alle leggende egiziane e ai racconti copti. Un’amalgama unitaria che trova nella tribù di Giuda la propria origine leggendaria e nella figura del Cristo la propria identità spirituale. Nel cuore del Libro Sacro è posta la storia secondo la quale l’Arca dell’Alleanza fu trasportata da Gerusalemme in terra d’Etiopia. È narrato, infatti, che re Salomone di Gerusalemme passò al figlio Bayna-Lehkem la Sacra Arca. Un passaggio importante e forte in tutto il proprio simbolismo: il patto tra Dio e il popolo di Israele venne meno e per mano dello stesso Dio una nuova terra fu scelta attraverso il sangue di Saba. Gerusalemme fu sostituita e l’Arca fu così trasportata nella nuova terra. Il patto, l’alleanza non fu così interrotta e proseguì in terra di Etiopia dove il suo popolo divenne il nuovo popolo eletto e, attraverso la stirpe di Salomone e Makeda, proseguì fino a Heilè Selaissè. Una storia, una leggenda, una tradizione che ha rafforzato il popolo etiope fino ai giorni nostri. Ad Axum esiste la Cappella del Tabot, di fianco alla Cattedrale di Nostra Signora di Sion, dove si dice sia custodita l’Arca protetta da un monaco guardiano nominato dal suo predecessore. È un incarico a vita e in solitudine. Il monaco rimane a custodia dell’Arca per sempre senza mai allontanarsene.

Libro sacro e poco conosciuto il Kebra Nagast fu tenuto per lo più segreto; la sua traduzione, parziale, è avvenuta solo in due periodi temporali e mai in lingua italiana.
Il primo è il periodo delle grandi esplorazioni del XVI secolo, in cui la curiosità dell’Europa verso le culture “esotiche”, lontane e differenti fa convergere l’attenzione dei più. Era, questo, il secolo del Concilio di Trento, del Santo Uffizio e dell’Indice era quindi impensabile la pubblicazione in Italia di un testo in cui si dichiarava l’Etiopia la terra della nuova Gerusalemme, in cui addirittura la famiglia “di neri” regnante era dichiarata di stirpe davidica, consanguinea, quindi del Cristo.

Altra ondata di interesse verso questo testo si ebbe intorno agli anni venti-trenta del Novecento, anche questa volta le traduzioni parziali dei testi esclusero la pubblicazione in Italia. Era il periodo della Campagna d’Abissinia intrapresa dall’Italia per la conquista dell’’Impero Etiope, che poco più di trent’anni prima aveva sconfitto il regno savoiardo grazie a Ras Maconnèn, e verso il quale le truppe di Mussolini muovevano ora guerra.

Il testo fu usato e diffuso nell’Ottocento nelle varie colonie “bianche” in cui gli schiavi erano i “neri”. Forse l’esempio più emblematico di questa diffusione si ebbe in Giamaica, colonia inglese in cui i prigionieri africani facevano tappa prima di riprendere il viaggio che li avrebbe condotti nelle colonie americane. Molti di loro riuscivano a fuggire dal giogo a cui erano stati incatenati andando a formare delle comunità chiamate Maroon. Fu in queste comunità che il tempo portò alla nascita di una cultura parallela a quella di origine dei singoli schiavi, incentrata proprio sul Kebra Nagast che rappresentò la porta ideale verso la libertà agognata.

Si allargò quindi il perimetro del “nuovo popolo eletto”: non più relegato ai confini di sangue e geografici dell’Etiopia, ma esteso ora all’intero continente nero, in cui Ras Tafari incarnò il Cristo nel nuovo cammino. Di fianco agli insegnamenti del cristianesimo e della tradizione del Kebra Negast, i Rastafariani seguirono i precetti, soprattutto di aspetto politico, di Selaissè. Questi professava, infatti, l’osservanza della dichiarazione universali dei diritti umani, la necessità di lavorare per una moralità internazionale governata dai principi di sicurezza collettiva, dall’autodeterminazione dei popoli, dal ripudio della guerra, il riconoscimento dell’ONU in quanto ordine sovranazionale per la risoluzione pacifica dei conflitti.

Inoltre, i Rasta credono nella creazione di sistemi politici basati su principi liberali e democratici rispettosi e difensori della DUDU, delle libertà civili, economiche, culturali e spirituali individuali, rifiutando ogni tipo di ideologia totalitaristica. Lo stato deve essere socialmente impegnato educando e guidando laicamente l’uomo al rispetto verso il prossimo e il Signore. Gli ideali di Selassiè lo portarono alla fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, che si prefiggeva lo scopo dell’unione continentale dell’Africa liberandola dai poteri stranieri, così da recuperare la propria identità atta a sviluppare modelli politici e culturali propri. Seguendo questa ideologia nel 1948 Re Selassiè donò cinquecento acri di terra nei pressi della città di Sciasciamanna alla Ethiopian World federation, un’organizzazione che aveva come obiettivo aiutare le popolazioni afro-americane a tornare nei territori africani, da esempio fu la American Colonization Society, invitando, così, i neri della Giamaica a stabilirvisi.

Rapidi furono lo sviluppo e la diffusione della nuova cultura Rasta in cui convergevano le esperienze spirituali e sociali di un intero popolo, inteso non sul piano etnico, ma su uno più ampio che racchiudeva l’intero continente africano e le sue diverse diaspore.

La nascente cultura aveva profonde radici spirituali connesse ad elementi arcaici come l’alterazione percettiva attraverso l’assunzione di diverse sostanze, pratica comune a molti riti antichi, ad esempio in quelli eleusini, dove lo stato di alterazione psichica era dato dal fungo presente sulla segale cornuta che i partecipanti al rito ingerivano prima di entrare nel tempio. La ricerca di tale livello di alterazione percettiva, che aiuta ad avvicinarsi a Jah, a Dio, si ha attraverso l’assunzione della ganja, la cannabis. Nel Kebra Nagast la ganja è associata all’albero della vita e della saggezza che cresceva nel Giardino dell’Eden di fianco all’albero della conoscenza del bene e del male.

Inoltre, la sua sacralità è dovuta anche alla leggenda secondo cui questa pianta cresceva sulla tomba di Re Salomone, probabilmente era la Kaneh Bosm biblica, uno degli ingredienti, insieme alla mirra e alla cannella, dell’olio sacro per le unzioni. Come non associare questa alla acacia che, secondo alcune tradizioni esoteriche, crebbe sulla tomba di Hiram, architetto chiamato proprio da Salomone per l’edificazione del primo Tempio?

Come si diceva, la cannabis era una pianta utilizzata in varie ritualità antiche come in quella vedica in cui aveva un ruolo di primaria importanza tanto da essere menzionata nell’Atharvaveda come “Erba Sacra”, facente parte delle cinque piante sacre del mondo indiano, usata anche come offerta a Shiva.

Insieme alla ganja nella cultura Rasta riveste particolare importanza la musica. Particolari ritmi semplici e ripetuti all’interno di un brano hanno la stessa funzione dei mantra. Aiutano chi li ascolta a calibrare quelle particolari lunghezze d’onda proprie che entrano così in armonia prima con la musica e, successivamente, attraverso essa, con una realtà naturale superiore. Esempi simili si hanno nella musica presente nei combattimenti di Capoeira, anche questa di origine africana, angolana per essere precisi, o nelle preghiere buddhiste dove lo stesso gruppo di suoni ripetuti attraverso le corde vocali canalizza la concentrazione fino ad aprire la mente del praticante ad un esperienza superiore.

Si può ritenere la Giamaica patria del movimento musicale che diverrà conosciuto in tutto il mondo con il nome di Raggae. Come si diceva prima, su quest’isola si crearono delle comunità formate dagli schiavi fuggiaschi che introdussero una particolare forma musicale chiamata Nyabinghi. Da questa derivarono nella prima metà del Novecento, oltre al Raggae altri stili musicali come il Calypso, nato sull’isola di Trinidad, lo Ska o il Mento. L’elemento principale del Nyabinghi, e degli stili da esso derivati, è il tamburo “burru” in cui si crede sia presente lo spirito di Jah. Il nome di tale musica ha origine nel movimento anti-colonialista nato negli cinquanta dell’Ottocento in Africa Orientale che ebbe la sua anima attiva in Muhumusa, una guaritrice ugandese che, per prima, organizzò una resistenza contro i tedeschi presenti in quei territori. Si inizia a comprendere il profondo significato, legato e interiorizzato dalla cultura Rasta, della musica. La sua particolare storia assume la profondità e l’importanza del simbolo della continua lotta dei popoli neri per affrancarsi da l’egemonia occidentale.

Il senso di “liberazione” mentale dato dalla ganja unito al ritmo della musica aumentano la percezione sensoriale intorno al partecipante ai riti. Similmente accade nelle pratiche Voodoo, nei riti dei nativi americani fino ad arrivare alle pratiche sciamaniche asiatiche.

Altra pratica, facoltativa, è quella dei “dreadlocks”. Dio donò all’uomo la natura ed è nella propria che questi trova la sua forza. Tale “naturalità” dell’uomo è rappresentata dal non tagliare né pettinarsi i capelli così che possano cresce in maniera libera senza, quindi, che ne venga alterata la struttura. Questo il motivo per il quale gli aderenti al Rastafarianesimo praticano tale voto a Dio.

Altra cosa è la loro somiglianza alla criniera di un leone, simbolo della tribù di Giuda da cui discese Ras Tafari, che fa ricollegare la pratica dei capelli incolti alla storia di Sansone, il “Piccolo Sole”, e al voto di nazireato, nel Cristianesimo questa pratica si è conservata solo nella tradizione etiope, che costituisce la testimonianza concreta della devozione a Dio prevedendo, tra le altre, la consacrazione del proprio capo astenendosi, quindi, dal tagliarli e dal pettinarli; il pettine potrebbe strapparne qualcuno facendo contravvenire quindi al voto fatto. Il Kebra Nagast racconta perfettamente la storia di Sansone e di come nacque già nazareo, di come la madre, moglie di Manoach, ebbe l’annuncio da un angelo della gravidanza e della nascita del figlio tanto atteso. Storia, quest’ultima, molto simile al racconto della nascita di Cristo. Questo parallelismo si nota nel primo cristianesimo in cui Sansone fu utilizzato come simbolo proprio di Gesù, soprattutto per la sua forza spirituale, espressa attraverso la consacrazione a Dio e al sacrificio finale e per l’accostamento all’eucarestia per il racconto del miele nato dal ventre del leone sventrato da Sansone. Si comprende meglio, quindi, l’importanza di questa figura e dei dreadlocks all’interno della religione Rasta: vanno preservate la propria integrità fisica e morale e l’esempio di Sansone cieco e incatenato ricorda cosa può accadere a coloro che disubbidiscono alla volontà del divino.

Il cerchio inizia a chiudersi. La cultura Rasta predica il ritorno in Africa delle genti strappate alla propria terra avita. Simbolo di questo ritorno è racchiuso nel concetto della Nuova Gerusalemme, di Zion, o Sion, la terra che Dio, in un primo momento, aveva promesso al popolo israelita. Furono soprattutto gli schiavi africani deportati nei nascenti Stati Uniti d’America a rafforzare dentro di sé questo concetto. Il ritorno era visto non solo in Etiopia, identificata con Zion, ma in Africa, terra loro promessa da Dio nel momento in cui fu condotta in Etiopia l’Arca dell’Alleanza. La nuova alleanza, il nuovo patto che Dio strinse con il popolo etiope dopo l’unione tra Salomone e Makeda. Durante la guerra civile americana molti erano i neri d’America uniti sotto il sogno della Nuova Gerusalemme, vera e concreta. Altri, al contrario, scorsero nella Nuova Terra Promessa un riferimento più spirituale ed esoterico, identificando Zion con la ricerca della propria Libertà e con il Paradiso loro promesso da Dio.

Zion divenne, così, il simbolo della libertà del popolo nero dallo sfruttamento dei bianchi e dell’Occidente identificato come Babilonia. Prima si è detto dell’importanza della musica nella cultura Rasta sia come mezzo di “apertura” per un contatto con il divino, sia per trasmettere messaggi di carattere politico, sociale ed ideologico, e Zion, così come Babilonia, è presente in vari brani di Marley, Boney M., gli Abissinians ed altri. Un’idea, quindi, ancora forte e sentita. Zion non deve essere considerata come un’utopia geografica, piuttosto come quel continuo ed incessante percorso verso la luce che il singolo deve compiere in fratellanza con i propri simili per il bene e il progresso dell’umanità intera.

Mi sono immerso nella scrittura di quest’articolo quasi ignaro del mondo che ruota intorno alla cultura Rasta. Immagino lo zio di madre e a chi fece rilegare quelle pagine, forse suo nonno. Li immagino inconsapevoli del futuro lì scritto: da uno di quegli eroi abissini, Ras Maconnen, nacque la reincarnazione del Cristo e il movimento Rasta che ne seguì.

Mentre scrivo mi accorgo di quanto sia sconosciuta, di quanto sia stata strumentalizzata questa cultura e di quanto, poi, sia entrata nel mondo occidentale, nella “Babilonia”, come fenomeno di moda snaturando il suo essere movimento culturale, politico e spirituale.
Una superficialità latente invade il nostro essere occidentali e moderni che non permette di analizzare e comprendere in maniera approfondita e critica i fenomeni migratori di oggi. Basterebbe iniziare con il pensare a Muhumusa e alla sua lotta contro il colonialismo tedesco, ma è una storia per noi troppo lontana e noi dimentichiamo.

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!