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Il pensiero viene prima del linguaggio? Luci dall’Oriente

Pensiero


Prima di essere formulati pensieri e intuizioni, simili alla foschia mattutina, prendono forma in una sorta di spazio prelogico in cui, potremmo dire, c’è calore, senso, ma non luce, né un contorno visibile, frutto delle nozze tra il nostro intento percettivo e la realtà esterna.

A volte, in questo limbo prelinguistico, pensieri e intuizioni sono più ricchi e potenzialmente espressivi di come saranno poi, una volta espressi. In effetti interpretare, “intelligere”, è anche una difesa dal Caos, dal Nulla.

L’emersione di una forma e di una spiegazione da sovrapporre alla realtà è uno scudo contro la terribile e gelida malinconia dello spazio infinito. Se qualcosa di noi passerà oltre la morte, dovrà deporre ogni scudo.

Non è difficile immaginarlo: nei sogni più profondi, quando tentiamo di riportare indietro ciò che abbiamo esperito, le parole scivolano via come acqua sulla plastilina, sono inadeguate. Così, al risveglio, svanisce ogni ricordo. E i sogni più profondi sono solo una pallida imitazione della morte.

Nella nostra civiltà occidentale molti credono che senza linguaggio non sia possibile nessun tipo di intuizione, né di attività mentale degna di questo nome.

Al contrario, le civiltà in cui è viva la percezione della realtà dello spirito e dell’anima, dei “corpi sottili dell’uomo”, prevedono che un “quid” sopravviva alla morte e che un’attività della mente possa continuare.

Ad esempio nella pratica tibetana del Phowa si insegna come far uscire, nelle ore successive al momento della morte, la scintilla di consapevolezza che ci sopravvive dalla apertura del corpo più “favorevole”, la fontanella alla sommità del cranio, per affrontare nel modo migliore le apparizioni che ci attendono nel Bardo del post-mortem e riconoscerle come provenienti da noi stessi.

Secondo la scuola shivaita dello Spanda, fiorita nel IX secolo, la realtà ultima delle cose è un movimento, una vibrazione, un princìpio attivo responsabile delle innumerevoli creazioni e dissoluzioni cosmiche e individuali. Lo stesso pensiero si presenta agli occhi dell’illuminato o dell’offuscato come Nirvana o come dolore e trasmigrazione.

Questo vale anche per le parole e le lettere del linguaggio che, per così dire, rappresentano il “corpo” del pensiero: sono pietre che possono trascinare a fondo l’offuscato o possono divenire potenze liberatrici che guidano l’illuminato verso la liberazione.

Anche i Mantra possono avere questa funzione: sillabe o fonemi non necessariamente dotati di senso compiuto, che non dirigono l’attenzione verso un oggetto esterno, ma lasciano la coscienza libera di riposare in se stessa, senza imbrigliarla in una rete di interessi pratici. Come le grida animali, esprimono o provocano uno stato di coscienza indipendente dalle categorie logiche del pensiero.

Le 50 lettere dell’alfabeto indiano si possono intendere come altrettante forme della potenza della coscienza dell’Io, che grazie ad esse si esprime come inesauribile varietà e movimento. Agli occhi dell’illuminato anche le parole convenzionali divengono Mantra, così come la poesia rivela sensi nuovi oltre a quello letterale.

Dio incontrastato di queste utilizzazioni “spirituali” dei suoni è Shiva Bhairava, “colui che nutre” e “colui che sostiene”, attraverso il grido, il suono e la parola. Attraverso il suono delle lettere e delle parole si esplica la sua azione: egli emana, crea e dissolve.

Il fine dello yogin è dissolversi, assorbirsi, riposare in Shiva attraverso la conoscenza, nel brahman, nel vuoto, nella pace, nella conoscenza senza dualità. Una delle tecniche utilizzate dagli yogin prevede che inspirazione ed espirazione, assieme all’emissione sonora di alcune sillabe, imitino il riassorbimento e l’emanazione del cosmo da parte di Shiva.

Durante gli intervalli tra inspirazione ed espirazione può verificarsi l’illuminazione; dal punto di vista dello yoga, si apre il canale centrale mediano, detto “susumna” dove possono confluire i due soffi opposti del prana e apana e confluire con il fuoco-soffio udana, dissolutore di ogni polarità e antinomia.

L’incantesimo e la magia della Maya fanno sì che la coscienza possa offuscarsi allontanandosi dal suo nucleo originario, dando origine ai pensieri limitati, alle rappresentazioni mentali che sono all’origine della trasmigrazione e del dolore, o che possa oppure illuminarsi, tornando a quel nucleo originario. Questo movimento di allontanamento e avvicinamento si esprime nell’emozione, nella paura, nella gioia, nell’amore, nell’incertezza, inquinate dal contatto con i sensi, con la mente, con il respiro, con il corpo.

Lo yogin deve quindi tacitare la perturbazione “egoica”, raccogliere in sé, come fa la tartaruga con le sue membra, la sua energia psichica, le sue operazioni mentali. In questo senso viene detto che “l’ignoranza è il mezzo della conoscenza”: movimenti, sentimenti, emozioni conducono al nucleo centrale quando vengono privati degli aspetti sensibili che ci offuscano.

L’obiettivo dello yogin è raggiungere lo “Spanda”, movimento, vibrazione, energia, il princìpio attivo fonte delle creazioni e dissoluzioni cosmiche e individuali. Non “pensato”, ma “pensante”, lo Spanda è l’origine e la causa del pensiero stesso e anche il punto di connessione che collega due pensieri. È la realtà piena e perfetta da cui nascono le rappresentazioni mentali che sono all’origine della trasmigrazione e del dolore, di quella attività gratuita che genera la Maya.

Tutto ciò che esiste nella coscienza, diceva Somananda nel IX secolo, prima di apparire distintamente nel pensiero e tradursi in azione, preesiste nella volontà. Dietro ogni conoscere ed agire c’è un germe che contiene conoscenza e azione in stato sottile e non può essere espresso in parole. Il suo stato di esistenza è preverbale.

Sempre secondo Somananda, due sono gli stati che riguardano la volontà:

1) Una tensione, onda o vibrazione impercettibile, esperienza avvertita nel “luogo del cuore” durante le emozioni violente: sorpresa, amore, terrore.

2) La volontà vera e propria, che si esplica attraverso immagini intellegibili, verso le quali poi si dirigono le azioni.

Anche le pratiche del Tantra-yoga, da mettere in opera durante l’unione sessuale, sono associate a queste concezioni. L’unione tra maschio e femmina diviene un veicolo che conduce al brahman e i due membri della coppia umana rappresentano Shiva e la Potenza di Shakti, che confluiscono nell’unità. In particolare la donna, che incarna la Potenza di Shakti, ha il potere di condurre l’uomo al di là del velo di Maya.

Questa presenza femminile non dev’essere necessariamente attuale, ma può anche essere mentale, creata dallo yogin, e, in tal caso, il metodo tantrico prende il nome di “Ekavira”, “metodo dell’eroe solitario”.

È evidente che per i due membri della coppia tantrica si tratta di risalire dalla donna e dall’uomo esteriore a quelli interiori e, quindi, fino al “luogo del cuore”, scaturigine della volontà. Si utilizza il desiderio sessuale per un oggetto esterno, per poi risalire all’interno, oppure si usa come mediatrice una immagine, una forma – pensiero creata dalla nostra mente, ma l’energia dell’unione che si sprigiona nella copula è sempre rivolta verso l’interno.

Esistono altri tipi di pratiche, nello Shivaismo cosiddetto “della mano sinistra”, in cui ci si spinge in una direzione apparentemente del tutto opposta al risultato che si vorrebbe ottenere. Queste pratiche risultano quasi sempre disgustose, incomprensibili e a volte persino ributtanti per la sensibilità occidentale.

Ad esempio: mangiare moltissima carne e indulgere nell’alcool e in comportamenti criminali, cibarsi di avanzi di cadaveri e dissetarsi dei flussi sessuali.

L’aspetto vivificante di simili pratiche sarebbe quello di condurre a un punto di catastrofe la dicotomia tra le immagini esterne e quelle interiori, prodotte dal cuore. Così nutrirsi di cadaveri dovrebbe illuminarci su quanto sia disgustoso per la mente nutrirsi delle immagini del mondo esterno, estendendo all’intero universo quella che nel Tantra è la dicotomia tra la donna esterna e la donna interiore; assimilare flussi sessuali dovrebbe illuminarci sul fatto che ciò che percepiamo attorno a noi non è altro che “sperma della mente”, che proietta la tensione interiore dal luogo del cuore verso gli oggetti esterni; lo stordimento che deriva dal mangiare troppa carne e bere alcool, oppure dall’abbandonarsi ad azioni criminose, dovrebbe illuminare sull’offuscamento a cui va incontro chi si nutre e si disseta delle forme – pensiero create dalla sua stessa mente.

Un’altra tecnica utilizzata è, invece, quella di nutrirsi di buon cibo, buona musica e nutrirsi della bellezza della danza e delle opere d’arte, gustando tutto ciò al di là di ogni appetito volgare e al di là di ogni associazione pratica con l’Io e con il Mio.

Queste forme di diletto vanno riconosciute come forme attenuate e parziali della beatitudine che attende lo yogin nel “luogo del cuore”, nella parte più profonda di sé. Lo yoga che si avvale di queste tecniche è detto “yoga senza mezzi”, una via di realizzazione immediata che, secondo Abhinavagupta sarebbe destinata agli eroi, mentre la maggior parte dei devoti ha bisogno di pratiche e meditazioni graduali.

Invece, nel buddhismo dell’VIII secolo, l’opposizione tra i buddhisti partigiani del metodo graduale per raggiungere l’illuminazione e quelli che sostenevano l’esperienza improvvisa e folgorante culminò in una disputa svoltasi nel monastero tibetano di Samye.

A capo della delegazione che sosteneva il metodo “immediato” c’era il cinese Mo-Ho-Yen, seguace della scuola Chan, a capo dell’altra delegazione l’indiano Kamasila, che prevalse. Mo-Ho-Yen e altri della sua delegazione si suicidarono, tagliandosi a pezzi, recidendosi i genitali o bruciandosi vivi.

Questo nocque alla diffusione in Tibet della tradizione dell’illuminazione improvvisa, ma tale tradizione fiorì, invece, in Cina e in Giappone, con il nome di Chan e di Zen, derivati dal medio indiano Jhan, dal sanscrito dhyana, “meditazione”.

Si parva licet, questa diatriba così distruttiva mi ricorda in sedicesima quella che ha agitato la sinistra fin dal suo nascere, tra i riformisti e i rivoluzionari del “tutto e subito”.

Molte di queste considerazioni sono tratte dalle opere di Abhinavagupta: ‘Considerazioni sull’assoluto’ e ‘Luce dei Tantra’, a cura di Raniero Gnoli.

Autore Alessandro Orlandi

Alessandro Orlandi (1953) matematico, museologo, curatore per 20 anni dell'ex museo kircheriano, musicista, saggista ed editore della Lepre edizioni, è autore di numerosi articoli e libri riguardanti la matematica, la museologia scientifica, la storia delle religioni, la tradizione ermetica, l’alchimia, le origini del Cristianesimo e i Misteri del mondo antico.

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