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Il mio bisnonno Eduardo Minichini

Eduardo Minichini


Conservo tuttora un nitido ricordo di quando, ancora piccolino, mi dava piacere essere attorniato dai miei compagni, sia di scuola elementare che da quelli di giochi, ai quali ero felice di raccontare delle semplici, a volte banali storielle che scaturivano al momento, di getto, dalla mia infantile ma fervida immaginazione, riuscendo sempre e facilmente a rapire la loro attenzione.

Ero un imberbe affabulatore dai pantaloncini corti e credo fosse una mia particolare qualità, una predisposizione innata, forse l’eredità genetica ricevuta in dono dal mio bisnonno, Eduardo Minichini, poeta e commediografo napoletano che, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, portò sulle scene teatrali di Napoli storie di camorra in un ricco repertorio di rappresentazioni, e tanto altro.

Ebbe dieci figli e, come la maggior parte degli artisti di quell’epoca, morì quasi in povertà, ma non dimenticato dal popolo napoletano.

Il mio bisnonno fu, insieme all’attore Federico Stella, per oltre quarant’anni animatore del popolare Teatro San Ferdinando di Napoli, dal penultimo decennio dell’Ottocento fino alla soglia del ventennio del secolo scorso.

Il Teatro San Ferdinando venne costruito nel 1791 per volontà di Ferdinando IV di Borbone e, ancor prima di legarsi al nome del grande Eduardo De Filippo che ne divenne proprietario nel 1948, si avviò al successo solo a partire dagli anni Ottanta, quando iniziò a calcare il suo palcoscenico la Compagnia di Federico Stella sorretta dalla inesauribile penna del mio bisnonno, Eduardo Minichini.

Fu uno dei primi, se non il primo, a portare in scena un repertorio spiccatamente “camorristico”, a far conoscere una realtà che muoveva i primi passi, un fenomeno di costume, ormai sulla bocca di tutti, importato dalla Spagna.

La camorra per un lungo arco di tempo è stata considerata alla stregua di una sorella minore della mafia siciliana, di essa si avevano scarse e incomplete notizie mentre sulla mafia era già presente un’ampia, completa storiografia.

Per assistere al salto qualitativo della criminalità in Campania con la sua esplosione di violenza si dovettero aspettare gli anni Ottanta dello scorso secolo, fino a quell’epoca il fenomeno della camorra non ebbe significative attenzioni storiografiche, era un fenomeno marginale.

In seguito ad una particolare attenzione letteraria, dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli inizi del Novecento, l’interesse sulla camorra fu messo da parte, considerata un fenomeno storico da archiviare.

Essa, con il trascorrere degli anni, grazie a una scarsa attenzione da parte degli organi di informazione, della classe culturale e dell’opinione pubblica, ebbe modo di accrescersi abnormemente all’ombra di una società civile distratta; per lungo tempo usufruì anche della complicità della mancanza di una letteratura e di una filmografia specifica che ebbe solo a partire dalla metà del XX secolo ispirando diversi autori cinematografici e televisivi.

Durante la dittatura fascista perfino Mussolini, a partire dal 1922, sottovalutò il fenomeno camorristico, contrariamente alla guerra che sferrò contro la mafia siciliana. Addirittura concesse la grazia a molti di quei malviventi, sicuro che nel nuovo regime dittatoriale questi non avrebbero costituito un pericolo. In realtà, la camorra restò in sordina, non scomparve e nel secondo dopoguerra iniziò ad assumere le caratteristiche attuali.

Colui che iniziò a scrivere di camorra fu Marc Monnier, subito dopo l’annessione di Napoli all’Italia unificata nel 1861, pubblicando nel 1862 un libro dal titolo: ‘La camorra’ che venne tradotto anche in francese col titolo di ‘La Camorra. Mystères de Naples’. Un libro di notizie storiche raccolte e documentate, uno scritto fondamentale, la prima opera pubblicistica sul fenomeno, inoltre, è un testo storico-sociologico che ne propone un’analisi molto chiara.

Monnier ne collocava la vera comparsa non prima del periodo degli anni venti dell’Ottocento. È tra questi anni e il 1860 che la camorra si sarebbe formata, prima nelle carceri poi sul territorio urbano. Egli la considera qualcosa dedita all’estorsione organizzata, una forma di delinquenza con addirittura una propria forma di solidarietà, intesa come solo napoletana, costituita da un gruppo di malviventi riuniti in forma di setta con una rigida gerarchia e tradizioni governate da un regolamento, sembra, trascritto su “papello”.

Lo stesso Monnier dubitò che fosse mai veramente esistito: era noto che i camorristi non sapessero leggere, erano analfabeti. Si legge altresì che la camorra abbia avuto comunque uno statuto che a metà tra realtà e leggenda prese il nome di “Frieno”, un compendio di ventisei regole scritte nel 1842 da un misterioso leggendario “Contaiuolo”, un certo Francesco Corticelli, di cui si dubita anche che sia mai esistito.

Il “Frieno” raccolse le regole di una società segreta criminale dalla connotazione mutualistica dalla struttura piramidale. A capo c’era il “Capintesta”, poi via via i “Capizona” e i “Camorristi”. Sulla reale esistenza di questo documento ci sono molti dubbi, un po’ per l’analfabetismo dei camorristi, un po’ per la necessità di non lasciare tracce scritte delle loro attività. Monnier non credeva nell’esistenza del “Frieno”, bensì che fosse frutto della fantasia di qualche scrittore o giornalista dell’epoca.

Il mio bisnonno Eduardo era un riduttore, rabberciatore, cuciniere straordinario che si occupò di tutto: dalla tragedia al dramma storico, dal dramma larmoyant alla commedia di carattere, dalla farsa pulcinellesca alla pochade scarpettiana. Egli ridusse Fior d’arancio di Francesco Mastriani, La jena delle Fontanelle e La pettinatrice di San Giovanni a Carbonara, allestendo per Federico Stella anche gli impegnativi adattamenti teatrali de I vermi e Le ombre.

Nel ricco repertorio della Compagnia Stella che abbracciò molti dei generi allora di moda, non mancarono pertanto quei drammi di ambientazione camorristica portati in scena dal mio illustre antenato che riscossero un discreto successo presso il vivace, folcloristico pubblico del San Ferdinando.

Alcune di queste opere furono: La fondazione della camorra; ‘A morte ‘e Tore ‘e Criscienzo, rappresentato per la prima volta il 3 dicembre 1910 al Teatro San Ferdinando; Ciccio Cappuccio, rappresentato per la prima volta nel 1902; Alta e bassa camorra, e tante altre, tutte a firma di Eduardo Minichini, nato a Napoli il 9 marzo 1845 e deceduto il 5 maggio 1918.

Egli fu per quattro anni uno stretto e fidato collaboratore del grande Eduardo Scarpetta, il padre della dinastia dei fratelli De Filippo.

Mi elettrizza e mi lusinga sapere che il mio bisnonno, con la sua opera teatrale ‘A morte ‘e Tore ‘e Criscienzo, anche se solo marginalmente, toccò la “questione meridionale”, venutasi a creare con l’avvento dell’Unità d’Italia del 1861; nata dalla strettissima collaborazione tra il nascente Stato italiano e la camorra, grazie alla collaborazione tra l’Avvocato Don Liborio Romano, Prefetto di Polizia sotto la reggenza borbonica, e Salvatore De Crescenzo meglio conosciuto come Tore’ ‘e Criscienzo, indiscusso capo della camorra napoletana della Vicaria e capintesta della capitale borbonica.

È in quel periodo che prese vita la trattativa tra lo Stato e la camorra, furono proprio Liborio Romano e “Tore e Criscienzo” che con la loro “Guardia cittadina” il 7 settembre 1860 andarono incontro a Garibaldi che giunse in pompa magna, per spalancargli le porte della città di Napoli, l’allora capitale del Regno delle Due Sicilie.

Il Prefetto di Polizia, Don Liborio Romano, voluto poi da Francesco II come Ministro dell’Interno, fu contattato da emissari di Cavour ai quali promise tutto il suo appoggio alla causa Sabauda al fine di garantire l’ingresso dell’eroe dei due mondi, Garibaldi, a Napoli, senza che venissero provocati clamori e rivolte.

Liborio Romano convocò De Crescenzo al quale propose un patto scellerato e tutto sommato forse necessario per lui e per i suoi seguaci malandrini: un’amnistia generale, uno stipendio governativo e l’ingresso nella Guardia cittadina, se fosse riuscito ad arginare la popolazione, in sintesi consegnò ai camorristi la patente di “tutori dell’ordine pubblico”.

Tore’ ‘e Criscienzo, a seguito di una proposta così allettante che marcava ancor maggiormente il suo dilagante potere delinquenziale, accettò senza esitazioni permettendo l’ingresso di Garibaldi nella città di Napoli in assoluta tranquillità.

In realtà, prima di questo accordo, Cavour e il Romano progettarono di sollevare Napoli contro il Re Ferdinando costringendolo all’abdicazione, ma il complotto fallì miseramente. Lo scopo di Cavour era di togliere a Garibaldi il controllo delle operazioni facendogli trovare, al suo arrivo, una città spontaneamente insorta contro i Borbone.

All’arrivo di Garibaldi l’ordine pubblico fu gestito e diretto a Napoli esclusivamente dai camorristi, essi si fregiarono di una coccarda tricolore sul cappello.
Tore ‘e Criscienzo si autonominò Questore.

Da considerare che i camorristi fino a quel momento non erano altro che piccoli criminali impegnati in “affari” di quartiere e grazie al patto con lo stato fecero un salto di qualità.
Gli uomini arruolati nella Guardia cittadina diventarono dodicimila nel giro di pochi mesi, incrementando così un’enorme crescita di criminali in divisa da tutori della legalità.

La camorra, ormai indirettamente legittimata a operare liberamente, iniziò a marcare quel martoriato territorio, dedicandosi con fede assoluta al contrabbando e alle estorsioni. Le merci in arrivo in città puntualmente venivano bloccate dai malviventi al grido di, “è robba ‘e zì Peppe”, riferendosi ovviamente alla persona di Giuseppe Garibaldi.

Questo è ciò che ci racconta la storia vista in un contesto più generale, scendendo nei particolari un’importante domanda da porsi dovrebbe invece essere: in tutto questo Garibaldi è stato un camorrista colluso con i capintesta?

Fonti storiche lontane da movimenti culturali nati a sostegno ideologico del Regno delle Due Sicilie, supportate da idonea documentazione, escludono categoricamente che Garibaldi fosse a conoscenza di questo movimento in suo favore, della protezione della camorra, anche perché il patto Stato – camorra c’era già prima e con l’Unità d’Italia aveva solo cambiato forma.

Autorevoli fonti bibliografiche e una vasta documentazione dimostrano che la camorra non solo era già radicata a Napoli da molto tempo prima dell’unificazione nazionale, ma esistevano già una serie di rapporti con le classi dirigenti, le forze di polizia e i ceti sociali più alti del Regno borbonico.

Si apprende addirittura che avessero in mano la gestione delle carceri, come scriveva il duca Sigismondo di Castromediano, illustre prigioniero politico che ebbe a che fare con l’Onorata Società nei bagni penali delle Due Sicilie, descrivendone la struttura e le modalità operative con molta precisione.

Nelle patrie galere capitava sovente che i prigionieri politici dividessero le celle con i delinquenti e molti degli esponenti dell’élite liberale napoletana venissero in contatto con i camorristi.

Alla luce di questi fatti credo sia lecito dar valenza alla frase: “la storia la scrivono i vincitori”, il che ci porta a dubitare dei libri che ne parlano.

Tutto questo, a un osservatore occasionale, può lasciare intendere che ciò che ci è stato narrato del passato potrebbe non corrispondere alla verità dei fatti.

Quanto sappiamo per davvero del nostro passato? Non si può negare che nei libri di storia leggiamo di eventi e accadimenti ben documentati, ma è altrettanto vero che la storia la scrivono i vincitori, i potenti.
Più risaliamo a epoche remote, più sarà difficile scoprire la verità.

Molto spesso non conosciamo bene neanche il nostro presente, tante volte neanche i fatti delle nostre famiglie, dei nostri amici e conoscenti: quanto di vero abbiamo imparato dai libri di storia?

Potremmo ricordare dei personaggi diversamente da come erano nella realtà. E se avessimo studiato delle dinamiche in modo alterato, avremmo addirittura potuto distorcere, alterare il senso storico dell’evento stesso?

La Storia la scrivono i vincitori e, tante volte, la cancellano. Di certo sarebbe stato facile manipolare il carattere di tanti personaggi, il tutto sarebbe semplicemente dipeso da coloro che ricevevano l’incarico di scrivere quella da tramandare ai posteri.

Un esempio è quello di Nerone, l’imperatore di Roma da sempre descritto nei libri come pazzo, crudele e piromane, alla cui memoria ultimamente si sta rendendo giustizia.

In questi famosi casi, fortunatamente, il tentativo di alterare la storia non è andato a buon fine, ma se la storia la scrivono i vincitori, quante altre volte ci è stata tramandata in modo giusto? Lo scopriremo mai? Probabilmente no!

Pensiamo anche ai giornalisti di oggi, al soldo di testate dichiaratamente pilotate e al loro modo di raccontare fatti e personaggi a seconda dello schieramento politico da cui dipendono.

Durante la mia infanzia sentivo spesso parlare in famiglia del mio bisnonno Eduardo quale persona nota e stimata nell’ambiente teatrale napoletano, e ne andavo già fiero senza peraltro capirne né di copioni né di recitazione, solo con la maturità ho compreso di avere avuto un antenato tanto illustre, e la cosa mi inorgoglisce.

Autore Armando Minichini

Armando Minichini è un ferroviere a riposo, ex macchinista autore del libro 'Attraverso un lungo viaggio', collabora con terronitv.

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