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Il mancato salto digitale della scrittura audiovisiva

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Transmedia storytelling


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Cinema e serialità tra ipertesto, ipermedia e transmedialità

Sebbene il concetto di ipertesto sia collegato, almeno nell’immaginario collettivo, all’avvento di Internet, le sue origini sono ben più remote.

Già nel XVI secolo, più precisamente nel 1531, Agostino Ramelli, un ingegnere italiano, mette a punto un particolare leggio rotante che consente la consultazione contemporanea di più volumi: la ruota dei libri.

Come ulteriori precursori possono essere il gesuita Roberto Busa, che con il supporto della IBM nel 1949 inizia un progetto di archiviazione digitale delle opere di Sant’Agostino, o Vannevar Bush, un ingegnere statunitense che ipotizza un sistema interconnesso di informazione a cui dà il nome di Memex.

Bisogna aspettare, invece, il 1965 perché il sociologo americano Ted Nelson coni il termine Hypertext, per identificare qualsiasi sistema non lineare di scrittura supportato dall’informatica.

Cosa significa? Che intende Nelson per scrittura non lineare? Quali sono le differenze rispetto ad un testo tradizionale?

Facciamo un esempio.

Se prendiamo un normale libro, in cartaceo, che si tratti di un saggio, di narrativa, di poesia, non importa, avremo una successione di pagine, che vanno dalla prima all’ultima, che costituiscono una traccia autoriale ben precisa, ma soprattutto un modello lineare di organizzazione delle informazioni.

Chi scrive ha predisposto un percorso di lettura, ha razionalizzato in una successione unica la fruizione del testo stesso.

Certo, non è detto che questa successione sia rispettata, nessuno ci vieta di saltare delle pagine, per assurdo di strapparne qualcuna, o di arrivare alla fine per scoprire chi è l’assassino in un romanzo giallo.

Possibilità che si rifanno un po’ al decalogo dei diritti del lettore di cui parla Daniel Pennac.

Tutto questo, però, non modificherà in nessun modo quanto predisposto dallo scrittore.

Diversamente, un esempio particolare di tentativi di rottura della linearità è sicuramente costituito dalle storie a bivi, di cui esistono tanti esempi, dai fumetti a Finzioni di Borges, in cui, ad un certo punto, si dà al lettore la possibilità di compiere delle scelte, di indirizzare in qualche modo lo sviluppo della trama.

Si resta, però, in un ristretto numero di opzioni, sempre definite da chi ha costruito i diversi bivi.

Un’evoluzione successiva sono i libri game, che moltiplicano i bivi e, di conseguenza, l’arbitrio di chi ne fruisce, introducendo, talvolta, l’elemento caso attraverso il lancio di dadi.

Prendiamo, invece, in considerazione un sito Internet.

Il webmaster non ne costruisce le pagine secondo una numerazione successiva e, anche se esiste una home, non c’è la certezza che la navigazione inizi proprio da quella, anzi, spesso non accade, soprattutto se ci si arriva da un motore di ricerca.

La successione di scrittura è spezzata, non preordinata da chi produce l’ipertesto, ma definita arbitrariamente da chi lo fruisce, in base alle proprie esigenze.

Questo comporta, in fase di elaborazione, tutta una serie di scelte, di differenze.

Come si dice in gergo, ogni pagina diventa un nodo, ovvero un’unità informativa in tutto e per tutto indipendente, collegato agli altri nodi da collegamenti logici, quelli comunemente conosciuti come link.

Il salto successivo è quello verso l’ipermedia, in cui i nodi non sono esclusivamente testuali, ma sfruttano appunto più canali di comunicazione, come immagini, suoni, video.

Le potenzialità del digitale irrompono in ogni media precedente, rendendo, innanzitutto, orizzontali le comunicazioni di massa, cambiando il modo di intendere l’informazione, ma anche, come dicevamo, di essere autore dei diversi media.

La figura dell’autore ipertestuale si avvicina a quella del lettore, anche se non arriva a identificarsi completamente con essa.
George Paul Landow

Lo stesso Landow usa il termine wreaders, come fusione da writers, autori, e readers, lettori.

Non sempre, però, è così semplice la conversione, soprattutto quando non si riesce ad individuare per un determinato canale una forma di espressione che sia capace di sfruttare le immense potenzialità aperte dal digitale.

Facciamo anche qui degli esempi.

La comunicazione testuale dalla rete porta sicuramente ad un’evoluzione di media tradizionali.

Pensiamo a quanto accade ai giornali, con le versioni telematiche delle varie testate.

Mentre con il classico giornale bisognava aspettare che arrivasse in edicola il cartaceo, con la cronaca ferma ad ore prima, visti i tempi di composizione, di stampa, di distribuzione, online questa assume i tratti dell’immediatezza.

O possiamo pensare all’e-book.

Però sarebbe limitativo aspettarsi che ci si possa fermare alla semplice evoluzione di canali già esistenti.

La rete ne sviluppa di nuovi, come i siti web o i blog, forme native del digitale.

Come lo sono i videogame, sempre più sofisticati e realistici, discendenti più o meno diretti dei libri game di cui parlavamo, in cui l’interazione è massima.

Come cambia, invece il cinema, ma più in generale la produzione audiovisiva, nell’era del digitale?

Sicuramente il superamento dell’analogico porta a tutta una serie di vantaggi in termini di girato, di montaggio, di risoluzione.

Indubbiamente Internet apre possibilità di distribuzioni che superano la sala cinematografica o la televisione come luogo/mezzo della fruizione.

Ma in che modo gli autori modificano la narrazione, nella direzione di una scrittura non lineare?

In cosa differisce una web serie da una fiction tradizionale?

Una delle forme utilizzate è stata quella dell’iperfilm, null’altro che una sorta di film a bivi, tra l’altro rimasta a livello di sperimentazione e che possiamo archiviare come un tentativo non esattamente riuscito di applicare al cinema meccanismi trasposti da altri media.

Se le produzioni americane rendono ipertestuale la narrazione, questo è molto spesso solo a livello simbolico, con citazioni, rimandi, link soltanto ‘virtuali’, non espliciti, non sempre colti dallo spettatore, che in ogni modo non ha margini di interazione, in Italia questo accade molto più raramente; così come è poco diffuso il ricorso alla transmedialità, concetto elaborato dall’americano Henry Jenkins.

La narrazione transmediale rappresenta un processo attraverso il quale gli elementi integrali di un racconto sono dispersi sistematicamente su differenti canali di distribuzione con l’obiettivo di creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ciascun medium fornisce il proprio contributo peculiare allo sviluppo della storia.
Per esempio, all’interno del franchise di The Matrix, frammenti di informazioni sono distribuiti attraverso tre film, una serie di cortometraggi animati, due raccolte di storie a fumetti e numerosi videogiochi. Non esiste un’unica sorgente o ur-text che comprende l’universo di The Matrix nella sua totalità.
Henry Jenkins

Gli esempi di transmedialità si sprecano, ma perché questa sia sviluppata in tutta la sua potenzialità non può essere legata a sviluppi contingenti, per non dire casuali, ma ad un originario Transmedia storytelling.

Tornando alla serialità audiovisiva, a parte le sporadiche esperienze di iperfilm di cui parlavamo, non esistono tentativi dell’elaborazione di una forma nativa del digitale, che sfrutti appieno anche le possibilità di Internet.

Non basta creare qualche bivio per rompere realmente la linearità della scrittura.

Non basta dare allo spettatore la libertà di qualche semplice alternativa narrativa per avere un’interattività effettiva.

Eppure, le condizioni per fare il salto, al momento sembrano esserci tutte.

Quelle che mancano sono le idee.

La prossima frontiera della scrittura non lineare sembra essere proprio questa.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.