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Il Godot di Scaparro debutta a Napoli



Dopo il successo romano eccezionale performance al Teatro Nuovo

Mercoledì 27 gennaio, ore 21:00, presso il Teatro Nuovo di Napoli ha debuttato lo spettacolo ‘Aspettando Godot’ di Samuel Beckett per la regia di Maurizio Scaparro in scena fino al 31 gennaio.
Protagonisti gli eccelsi Antonio Salines, nel ruolo di Estragone, Luciano Virgilio, Vladimiro, Edoardo Siravo, Pozzo, Enrico Bonavera, Lucky, Michele Degirolamo, il ragazzo. Gli splendidi costumi sono di Lorenzo Cutùli, le suggestive scene di Francesco Bottai. La produzione è del Teatro Carcano di Milano.

La totale fedeltà al testo originario del drammaturgo irlandese rende la regia di Scaparro assolutamente perfetta. Apprezziamo in pieno l’affascinante complessità della pièce, i suoi sottotesti, la sua ironia, la sua profondità e la permeante speranza che aleggia durante tutta la rappresentazione nonostante i tanti momenti di sconforto.

Le potenza dell’opera di Beckett viene sprigionata in modo mirabile. Pause, silenzi, vuoti di memoria dei personaggi come sorta di autodifesa, riflessioni apparentemente insulse che nascondono invece un universo di possibilità. Sta allo spettatore percepire le infinite chiavi di lettura che un’opera così densa di significati è in grado di fornire.

Sul palco, un microcosmo di sentimenti, personalità, atteggiamenti verso la vita tra due coppie di personaggi indissolubilmente legati, dipendenti l’uno dall’altro. Mentre il duo opposto fa da contraltare per esaltare la ricchezza del reale.

E non si può non riconoscersi in qualche tratto caratteriale: debolezze, fragilità, forza, prevaricazione, sudditanza, momenti di rivalsa e di nuovo oblio.

Interpretazioni impeccabili da parte di tutto il cast. L’impostazione vocale degli attori è ottima, la loro presenza scenica imponente, la loro mimica facciale realistica. Gestualità, postura e contatto visivo ineccepibili.

Solidarietà, sostegno, compartecipazione, empatia, amicizia o forse rapporto quasi filiale tra Vladimiro ed Estragone, due barboni avvolti da quell’abbraccio, mai però troppo stretto, che dura da cinquant’anni, che li trasforma, così, in Didi e Gogo. A tratti vorrebbero separarsi, ma i pochi momenti in cui non sono insieme si sentono, invece, smarriti, privi di una parte di sé.

Prepotenza, asservimento, ma anche necessità vitale di un rapporto apparentemente solo insano che in realtà è perfettamente bilanciato tra Lucky e Pozzo. L’intellettuale schiavo del potere che, allo schioccare di una frusta, deve obbedire ai comandi più assurdi del padrone, come ballare e pensare, e che viene condotto come una bestia con il cappio al collo.

La scena scarna, essenziale, apparentemente nuda, eppure così d’impatto, è costituita da una strada desolata e da uno scheletrico salice piangente. In un paesaggio così onirico e surreale che rimanda a quelli descritti da Kafka ne ‘Il Castello’ e da T.S. Eliot in ‘The waste land’, l’albero, simbolo di vita inesauribile e, per questo, dell’universo che si rigenera, risulta l’unico elemento dinamico che abbia un riferimento cronologico. Le foglie ormai sbocciate nel secondo atto mostrano, infatti, i mutamenti che avvengono con lo scorrere del tempo. Quella primavera più volte richiamata è il ritorno alla vita. Quel tronco è anche l’interlocutore logico e psicologico per i due vagabondi Estragone e Vladimiro che attendono Godot.

Giorni che si susseguono identici con la vana speranza di svelare chi sia questo misterioso Godot di cui si ignora tutto, che “oggi non verrà, ma verrà domani”, mentre l’indomani nulla sarà variato.

Luogo e orario dell’appuntamento dei due vagabondi, Estragone e Vladimiro, con Godot sono vaghi, così come evanescente è la sua figura. Impossibile provare a dare una definizione univoca e definitiva di chi possa essere costui, se non l’Attesa considerata secondo tutti i punti di vista, la possibilità di dare una svolta positiva alle proprie esistenze, l’opportunità di dare un senso alla vita. In questo non ci aiuta nemmeno Beckett che ha sempre giocato sull’ambiguità della sua figura, contribuendo anzi ad alimentarla.

I due suicidi inattuati per ignavia e rarefazione da parte di Estragone e Vladimiro, nascondo, al contrario, un attaccamento alla vita forse prima inimmaginabile. I due barboni attendono che Godot arrivi a rifocillarli e ad ospitarli a casa, cambiando così la loro condizione.

Arriva invece Pozzo, il proprietario terriero, con il servitore-schiavo Lucky, che conduce con frusta e corda. Due iniziali tentativi di andar via e riprendere il cammino della vita, salvo poi restare. La frustrazione dell’uomo nel suo rovinoso sforzo di “muoversi”, procedere, cambiare la sua posizione, mentre l’immobilismo di fondo diviene ancor più forte nella ciclicità di azioni ripetute all’infinito. O forse invece, proprio così tutto è in movimento. Ne scaturisce un senso di ciclicità, che seppur partendo da un’affermazione di indubbia valenza nichilista, quella pronunciata da Pozzo, “Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte”, si risolve in un eterno ritorno, ad una concezione, dunque, meno angosciante.

Due atti in cui non c’è sviluppo nel tempo, poiché non sembra esistere alcuna possibilità di cambiamento.

Ma a guardar bene è il ciclo dell’universo.

Diversi sono i momenti in cui i personaggi cadono: gli astanti non si preoccupano affatto delle condizioni di salute del malcapitato, anzi, ritardano crudelmente il soccorso sperando in un tornaconto personale.

La caduta di Lucky prima e di Pozzo poi, la loro inversione di ruoli, il loro non potersi rialzare se non con l’ausilio esterno, non indicano altro che la perdita di tutti i punti di riferimento, di certezze, di sicurezze che non riescono ad arrivare nemmeno dalle scienze. In entrambi i casi chi si rialza è aiutato e poi sostenuto dagli altri tre, nonostante ritrosie e resistenze, in fondo solo apparenti. Una caduta metaforica che poi riporta alla salita e all’accesso di nuove conoscenze esistenziali. In questo senso come non cogliere i riferimenti alla luce, alla rete in cui sostiene di essere avvolto Lucky, da cui affrancarsi in un’Epifania durante la quale addirittura si arriva alla percezione del sole che inverte il suo corso, che risale sebbene sia giunto all’opposto dell’oriente, momento la cui suggestione è sapientemente alimentata dalla gestione della luce in scena, impeccabile dall’inizio alla fine della rappresentazione.

Il continuo frugare nelle tasche di Vladimiro alla ricerca di verdure con cui sfamare Estragone e di Pozzo poi in cerca della pipa, del vaporizzatore e dell’orologio, riconducibili alla gestualità quotidiana servono ad umanizzarli.

Pozzo perde il suo orologio eppure crede di sentirne ticchettio per poi scoprire che in realtà è solo il battito del suo cuore. Non potendo più controllare il tempo è costretto a misurarlo in termini di vita umana attraverso i palpiti, consapevole che ad un certo punto anche il suo cuore smetterà di pompare.

Il suo vaporizzatore svolge lo stesso ruolo degli stivali di Estragone: un oggetto ordinario che occupa una quantità assurda del suo tempo e senza il quale non può ‘funzionare’.

Nel secondo atto la cecità di Pozzo che sceglie di ‘vedere’ secondo l’accezione edipica e l’afasia di Lucky, dopo un bellissimo ma sconclusionato monologo del primo atto che indica l’impossibilità di dare risposte alle ataviche domande dell’intellettuale, sono estremamente significative.

La trama, ridotta all’essenziale, è solo un succedersi di micro-eventi. Stasi, mancanza di azione, incomunicabilità, paradossalità dei dialoghi che rappresentano l’essenza del Teatro dell’Assurdo sono magistralmente portati in scena in questa versione di Scaparro che rispetta la grandiosità del premio nobel per la letteratura. Pièce sempre attuale, ancor più coinvolgente perché specchio della realtà contemporanea.

In questo contesto, il linguaggio non esprime affatto il compimento della volontà individuale, quanto piuttosto un mero esercizio autoriflessivo. La parola, così, si autocelebra espropriandosi. I dialoghi, ripetitivi e serrati, sono per lo più sconclusionati e privi di logica e proprio in questo risiede la loro forza. Il vuoto e il nonsenso della vita umana sono rappresentati in modo dirompente.

La sofferenza sembra generata dall’infinita attesa che, al contempo, è motivo di speranza, di cambiamento, di apertura di una nuova strada.

Che la si veda come commedia o dramma, la pièce è una perfetta sintesi di momenti tragici e divertenti. Si ride molto, ma si riflette anche tanto.

Uno spettacolo, ‘Aspettando Godot’ che consigliamo vivamente a tutti gli amanti del buon Teatro e anche a chi vuole approcciarsi per la prima volta al Teatro dell’Assurdo.

I prossimi appuntamenti con ‘Aspettando Godot’ sono al Teatro Nuovo di Napoli, Via Montecalvario, 16, dal 28 al 31 gennaio secondo il seguente calendario:

dal 28 al 30 gennaio ore 21:00, 31 gennaio ore 18:30.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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