Ricordi quella frase, quella della farfalla che batte le ali in Brasile e del tornado in Texas?
Un’immagine così straordinariamente scenografica che ci hanno fatto, appunto, un film.
Ogni anno, nella città cinese di Yulin, ha luogo il festival della carne di cane, il cui consumo è considerato salutare e fortunato. Ecco perché avviene a ridosso del solstizio.
Circa diecimila cani vengono torturati, squartati, bolliti vivi, nella totale indifferenza – al netto di qualche provvedimento di facciata – delle autorità cinesi dinanzi alle proteste sdegnate (soprattutto) da parte dell’Occidente.
E ogni anno i social, quelli nostrani, pullulano di sulfurei j’accuse, più o meno razzisti, più o meno complottisti, più o meno culturali, più o meno tutto, un melting pot politologico ove trovano posto, variamente intrecciati, Covid, pipistrelli, cani bolliti, comunismo, inferiorità di razza, bombe atomiche, dominio del mondo, inquinamento, cinesi che non pagano le tasse “”qui da noi” ecc…
Si tratta di uno sdegno comprensibile, per carità. È il nostro processo psicologico di rimozione del senso di colpa, al contrario, a destare qualche perplessità.
Lo sdegno è un sentimento che dispone sempre ad una strategica terzietà. Interpella cioè necessariamente l’altro per apparire.
Ci si sdegna dell’operato altrui; del proprio, tutt’al più, ci si vergogna. Detto in altri termini e senza fronzoli: piangiamo per le altrui nefandezze pur di non misurarci con l’orrore, del tutto affine, che riserviamo a decine di specie animali qui delle nostre parti.
Certo, nel corso degli anni la nostra malvagità alimentare – quella occidentale – si è debitamente perfezionata, ripulita, meccanizzata. Silenzio sulle atrocità nei macelli – pardon, allevamenti – a stento scalfito da qualche inchiesta shock; chirurgici battage pubblicitari sulle fattorie felici e le morti indolori; normative ad hoc incisive come l’attacco della Nazionale alle qualificazioni mondiali; filosofia alimentare prêt-à-porter sulla “natura carnivora dell’uomo”, la “necessità delle proteine animali”, “e allora l’olio di cocco”, ed altre amenità concettuali che giustificherebbero l’immutabile sorte di circa settecento milioni di animali, destinati ogni anno nel nostro Paese alla macellazione per fini alimentari.
Un meccanismo di cosmesi della crudeltà, che, in quanto crudeltà di massa, è già mezza salvezza del sé, una remissione di responsabilità à-la Eichmann, una percezione delle proprie scelte, ossia dei propri desideri, come superiori e inappellabili necessità; quel tanto che basta da non correre il rischio di sdegnarci di noi stessi.
Il che francamente andrebbe anche bene. In fondo siamo stati tutti, chi più chi meno, almeno una volta nella vita, dei piccoli Eichmann, in fuga dai Norimberga dei nostri sensi di colpa. Dovremmo però, e dovremmo farlo seriamente, evitare di trasformarci in Ghandi quando giudichiamo le colpe altrui. Non tanto per evitare la banalità del male che infieriamo nei fatti, quanto per risparmiarci, almeno, la comicità del bene che celebriamo a parole.
Rimanendo al piano del banale, a dover cioè ribadire l’ovvio, al netto di menzionata crudeltà di facciata, non vi è differenza alcuna tra le tipologie di animali considerate, eccezion fatta per la specifica mappatura delle crudeltà umane, storica o geografica che sia, ossia del loro diverso stadio evolutivo: lì si bolle vivo un cane, qui si distruggono ettari di risorse con gli allevamenti intensivi; lì si scuoia un gatto per benino, qui si schiacciano con una mazza d’acciaio migliaia di pulcini maschi inutili: lì si rubano cani domestici per macellarli in strada, qui si macellano agnellini come da tradizione gastro-religiosa.
Basta guardare la foto: la differenza con i nostri, affollatissimi banconi di carne scelta si riduce a qualche difformità fisiognomica dei macellai rispetto ai nostri. Nulla di più.
Cos’è che salva l’uomo, da migliaia di anni, dalla follia collettiva? La fede nell’unico bene forse? No. È l’accesso alla meravigliosa varietà del male e delle sue forme. Difatti, se c’è una cosa in cui l’uomo proprio eccelle, è la fantasia sterminata nelle modalità di conferimento del dolore. Ciò permette a ciascuno di noi di condannare il dolore inferto dagli altri e di dimenticare quello perpetrato da noi.
Migliaia di tornado da biasimare, migliaia di Texas da piangere: il catastrofico paradiso dei benealtristi.
L’abitudine a considerare “cibo” una mucca, un maiale, un coniglio, un pollo, un cavallo, e “amico” un cane o un gatto è figlia di un lusso latitudinale: è del tutto probabile che, “ex parte animalis”, in una orwelliana giuria da fattoria, non vi sarebbe differenza alcuna nelle condanne, e i nostri distinguo da peluche della morale non farebbero che indispettire quel porco del pubblico ministero.
Chi s’indigna ogni nuovo giugno per ciò che accade a Yulin, chi si prodiga via social in questa accorata performance estetica del dolore, senza cambiar NULLA delle proprie abitudini alimentari, incarna la codardia della sua veste peggiore, quella che non è neanche all’altezza della propria crudeltà.
Ci invece vuol fare davvero qualcosa, chi ritiene che la propria critica, il proprio sdegno, il proprio dolore per Yulin abbiano un fondamento etico, allora deve – nei termini categorici di imperativo che non ammette differimenti, paragoni o pindarici voli intercontinentali – provaci seriamente.
Vuoi davvero avere il diritto di soffrire per i cinquanta milioni di cani e gatti uccisi in Asia ogni anno, o addirittura fare qualcosa per salvarli?
Allora guarda cosa c’è nel tuo piatto.
Smettila di pensare come inventare nuovi Texas. Se vuoi fermare il tornado, sii farfalla, perché è il tuo battito d’ali a contare più di tutto.
Autore Giuseppe Maria Ambrosio
Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.