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Il dovere dispositivo della libertà: sul diritto di morire

Jean-Jacques Rousseau


Affinché dunque il patto sociale non sia un vano formulario deve contenere tacitamente questo impegno, che solo può dar forza agli altri, che chiunque rifiuterà d’ubbidire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo. Ciò non significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero.

Così scriveva Rousseau nel Contratto Sociale, dando vita ad uno dei più celebri e dibattuti ossimori filosofico-politici della storia, per quella sua brutale volontà di tenere assieme libertà e costrizione, due tra gli assiomi meno compatibili della cultura occidentale.

Nella prospettiva radicale del ginevrino la volontà dell’individuo, persino raggruppata nella volontà di tutti, recede dinanzi alla volontà generale, diversa per nascita e per qualità, liberatoria, perché dagli interessi dei singoli emancipa e salva, ed assieme necessaria al raggiungimento del bene comune.

A quasi tre secoli di distanza da quelle riflessioni, le parole di Marco Cappato ci hanno richiamato alla mente il passo rousseauiano. Parole pronunciate dopo che la Corte Costituzionale, all’esito della camera di consiglio del 25 settembre 2019, ha ritenuto, e il capoverso del comunicato ufficiale lo citiamo per intero:

non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Non scenderemo nei particolari di un cammino incerto, troppo incerto, sui temi del fine-vita, cammino che paga, più ancora del silenzio strategico della politica e della difformità degli organi giurisdizionali, la profonda, spesso precritica divisione sociale sul tema della disponibilità della propria esistenza.

Da Piergiorgio Welby, 2006, a Walter Piludu, 2016, passando per Giovanni Nuvoli, 2007, ed Eluana Englaro, 2009; casi diversi, talora molto diversi, accomunati da una domanda di fondo: può il diritto alla vita, massimo tra i cosiddetti “diritti personalissimi”, spingersi sino all’atto di una completa disponibilità, arrivando a comprendere il suo opposto, quella morte che ne è evento sommamente contraddittorio, essendo della vita, al contempo, negazione e ineluttabile coronamento biologico?

Quella morte che, come affermava Borges, è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare, cui però quasi a nessuno va di riflettere, di affrontare come corpo sociale accomunato da un unico, coraggioso intento, quello di riconoscere, al netto delle posizioni individuali, libertà alle scelte finali e personalissime del singolo irreversibilmente malato?

Mentre il nostro Paese rimane in attesa di un intervento del legislatore che la Consulta stima – continua il comunicato – “indispensabile”, ci piace ripensare, appunto, alle parole pronunciate da Marco Cappato – imputato per aver accompagnato Fabio Antoniani, in arte DJ Fabo, a porre fine alle sue sofferenze nella vicina Svizzera – all’esito del comunicato della Corte.

In particolare a quel

Da oggi siamo tutti più liberi, anche chi non è d’accordo,

che in qualche modo ci ha ricordato Rousseau.

L’edificazione di uno Stato compiutamente laico passa oggi, e mai come oggi, per battaglie come questa. Con la speranza, anche da parte nostra, che un odierno atto di disobbedienza civile divenga, domani, un diritto riconosciuto rispettato dalle leggi del nostro Paese.

Autore Giuseppe Maria Ambrosio

Giuseppe Maria Ambrosio, giornalista pubblicista, assegnista di ricerca in Filosofia Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Ha all'attivo numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e collabora con diverse riviste di settore. Per ExPartibus cura la rubrica ScomodaMente.

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