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Il disastro formativo italiano



Il sogno sessantottino che si realizza in un sistema formativo da incubo

In un precedente articolo avevamo delineato un quadro degli italiani certamente poco lusinghiero, basandoci su statistiche internazionali.

Tasso di analfabetismo funzionale più alto tra i paesi cosiddetti sviluppati, in coda alle classifiche di lettura, devastati dal digital divide.

Provando ad individuare le cause, in prima battuta abbiamo fatto riferimento al sistema formativo, in ogni ordine e grado.

Facendo sempre riferimento all’OCSE, il Bel Paese esce con ossa rotte anche da un’analisi strutturale del sistema scuola.

Un primo aspetto riguarda i docenti, la cui retribuzione media è drammaticamente bassa. Fanno peggio solo paesi come la Grecia, la Lituania e l’Ungheria. Come potere d’acquisto le cose vanno meglio persino in Costa Rica.

Così come sono inferiori, nel passare degli anni, gli scatti di anzianità.

Di contro, è più alta l’età media, il 59% circa dei professori italiani ha almeno 50 anni. La percentuale di docenti con età compresa tra i 25 e i 40 anni è la più bassa del contesto OCSE. Ma questa non la prendiamo come una notizia necessariamente negativa. Visto il precipitare della qualità dell’istruzione non osiamo pensare cosa sarà tra qualche decennio.

Passiamo, invece, agli studenti.

Oltre tutte le deficienze cognitive che avevamo analizzato nell’articolo precedente, altri dati allarmanti arrivano dalle università.

Sempre nel rapporto Education at a glance, si apprende che, nonostante la riforma del ciclo 3+2, la percentuale di laureati dai 25 ai 34 anni è solo del 28%.

Mentre i laureati nella fascia d’età dai 19 ai 64 anni è del 19% a fronte del 37% della zona OCSE. Praticamente la metà.

A fronte delle tasse universitarie tra le più alte in assoluto, si riscontra un misero 3,6% del PIL, destinato all’istruzione, contro la media OCSE del 5%.

Nel 2017 le risorse destinate alla scuola primaria ammontavano al 2% della spesa pubblica complessiva, quelle alla scuola secondaria al 3,8% e, infine, quelle per l’Università all’1%.

Un misero 6,8% sul totale.

In parole povere, gli studenti italiani pagano di più per un sistema formativo meno efficiente.

L’Italia, inoltre, sempre nell’ambito dei paesi OCSE, ha il rapporto tra i peggiori per quanto riguarda laureati ed occupati.

Solo il 72% dei laureati in materie artistiche, il 78% dei laureati in materie umanistiche e l’84% dei laureati in materie scientifiche lavorano.

La laurea, inoltre, non garantisce uno stipendio significativamente superiore a chi si è fermato al diploma.

Ci viene in mente il Checco Zalone di Che bella giornata.

Un giorno capirai tante cose di questo paese… Tu studi vero? Non serve a un cazzo, qui.
Checco Zalone – Che bella giornata

https://www.youtube.com/watch?v=1ZMGpr36rRg

Soprattutto se vediamo i curriculum di tanti recenti ministri.

Dell’istruzione, dell’università e della ricerca con la terza media o poco più.

Delle politiche agricole alimentari e forestali con la terza media.

Del lavoro e degli esteri con un diploma.

Alla salute con la maturità classica.

Anche se i risultati ottenuti da politici laureati non sono certamente più lusinghieri. Un po’ come il completare gli studi universitari non garantisce un trattamento economico migliore, così non equivale al combinare meno disastri dei colleghi con meno titoli.

Il quadro è completato dal numero di giovani con età compresa tra i 15 e 19 anni che non studiano e non lavorano: l’11%. I cosiddetti NEET, Not engaged in Education, Employment or Training.

Che salgono quasi al 23% per coloro che hanno da 20 a 24 anni.

Condizione comune al 37% delle donne tra i 25 e i 29 anni e al 26% degli uomini della stessa fascia d’età.

Probabilmente sono in attesa del reddito di cittadinanza?

Ma più che un problema quantitativo, il dramma della scuola italiana è qualitativo.

Le riforme che l’hanno cambiata nel corso degli ultimi decenni sono state a dir poco peggiorative.

Una scellerata ipocrisia pseudodemocratica ha inteso dare una risposta perversa al problema dell’istruzione delle masse.

Anziché alzare il livello della popolazione attraverso la formazione, è stato abbassato il livello di quest’ultima a quelle delle masse, con il risultato di lasciarle sì incolte, ma dotandole di un gratificante quanto inutile pezzo di carta, peggiorando la preparazione anche di quella percentuale di persone che, prima dello svilimento, conseguiva un titolo di studio autentico.

Anche quelle che una volta erano le élite sono penalizzate dal sistema, a meno di potersi permettere di studiare all’estero; privilegiando definitivamente chi possiede i mezzi economici a scapito di chi ha i mezzi intellettivi.

Fa niente che poi il sistema sia andato allo scatafascio e continui a peggiorare.

Mala tempora currunt sed peiora parantur.
Marco Tullio Cicerone

Le tappe della rottamazione del sistema scolastico, e in questo scritto ci fermiamo alla scuola superiore, sono diverse.

Nel 1962, con la riforma della scuola media venne abolita la scuola di avviamento professionale.

Di cosa si trattava?

Era un triennio parallelo alla scuola media, che forniva la possibilità a chi aveva completato le elementari, di avere un percorso che preparava agli studi tecnici o al mondo del lavoro, misto, tra formazione d’aula e laboratorio.

Era lo sbocco di chi non intendeva proseguire gli studi.

Di contro, chi, invece, frequentava le scuole medie veniva incanalato verso le altre tipologie di istruzione superiore, i licei soprattutto.

La stessa riforma, inoltre, lasciava aperto un caos enorme per quello che riguardava lo studio del latino.

Era l’accelerazione della fine.

Ci pensa poi il famigerato ’68 a dare il colpo di grazia.

Altre picconate arrivano, infatti, nel 1969. Sulla scia proprio delle proteste studentesche.

Viene abolito l’esame alla fine del V ginnasio per l’ammissione al I liceo.

Viene liberalizzato l’ingresso all’università.

Fino a quel momento a dare l’accesso a tutte le facoltà era il solo liceo classico.

Si fa largo l’idea, già di per sé sbagliata, che tutti possano fare tutto.

Da questa ad arrivare alla conclusione perversa che a tutti debba essere concesso tutto, a prescindere dal merito, il passo è breve.

La naturale selezione basata sul merito viene fatta passare per un sistema classista.

Il diritto allo studio confuso con il diritto al pezzo di carta.

Le riforme successive provano a correggere questa distorsione nel peggiore dei modi.

L’apertura a presunti nuovi saperi, che viene avviata dalla legge 820/71, ci mette di fronte ad un baratro pericoloso in cui stiamo tuttora precipitando e su cui torneremo a breve.

La legge Falcucci introduce la figura del docente di sostegno.

Nel 1979 il latino viene rimosso dalle materie di insegnamento delle scuole medie.

I programmi del 1985, invece, fanno scempio della scuola elementare, in un processo culminato nel 1990 con l’introduzione di più insegnanti per le varie discipline nella stessa classe, senza che agli stessi sia assicurata un’adeguata formazione e con il risultato che i docenti cominciano ad occuparsi delle specifiche materie in assenza di specifiche competenze ed attitudini, in base a meccanismi quasi completamente affidati al caso.

Nel 1995, con la cosiddetta Seconda Repubblica, qualche bel disastro lo inizia a fare anche il centrodestra. Vengono, infatti, aboliti gli esami di riparazione a settembre, con una forte reazione da parte della sinistra, che qualcosa del genere lo aveva già proposto. L’unico problema è che lo avesse adottato un governo Berlusconi; quindi, l’atteggiamento non poteva che essere pregiudiziale.

Nel 1997 viene profondamente modificato l’esame di maturità. Quiz a risposta multipla, il colloquio ‘multidisciplinare’.

Con la riforma Moratti del 2001, le commissioni delle maturità diventano tutte interne agli istituti, tranne il presidente.

Questo porta ad aumentare le iscrizioni agli istituti privati, dove, per cifre tutto sommato sostenibili, è possibile comprare pezzi di carta a tanto al chilo.

Il diritto allo studio come mercificazione del titolo, una sorta di rivoluzione fordista dell’istruzione.

Nel 2007 vengono introdotti i famigerati corsi di recupero.

Come capita di solito in Italia, da principi apparentemente ineccepibili si arriva alla peggiore delle applicazioni possibili.

Viene istituito l’obbligo per le scuole di individuare dei percorsi di recupero per quegli studenti che non raggiungono gli obiettivi didattici.

In linea di massima ci potrebbe anche stare. La scuola non dovrebbe assumersi il compito di portare a buon fine solo gli allievi che sono promettenti, che sono seguiti a casa, ma dovrebbe mettere in atto una serie di meccanismi che possano consentire anche a quelli meno portati di proseguire negli studi.

Lasciamo stare invece le considerazioni secondo le quali spesso sembra si voglia mettere in atto un vero e proprio accanimento terapeutico nei confronti di chi proprio non è tagliato.

Ci viene in mente un altro film, La scuola, il tormentone del Prof. Mortillaro:

C’è chi è nato per zappare c’è chi è nato per studiare!

Le implicazioni sono ben più gravi.

Dal momento in cui viene sancito che è obbligo della scuola mettere in condizione tutti di essere promossi, la conclusione è che se qualcuno viene bocciato è la scuola ad essere inefficiente.

Cosa ha fatto per evitarlo?

Cominciano, allora, a scattare una serie di ricorsi ai TAR, puntualmente vinti dai genitori, con tanto di richiesta di danni.

Già, perché la “povera capretta” è rimasta traumatizzata dalla bocciatura.

Quindi giù di rimborsi da parte di scuole che già, come dicevamo, non navigano nell’oro, visti i progressivi tagli di cui parlavamo.

Di conseguenza, diventa quasi impossibile bocciare.

Docenti sempre più impotenti. Anche a fronte della crescente incapacità educativa genitoriale.

Sarà che forse la mia è una generazione diversa, probabilmente in via di estinzione.

Ma ai miei tempi se si fosse ricevuta una bacchettata dalla maestra a casa non si sarebbe detto proprio.

Perché la reazione della madre media era quella di dare una sonora ripassata preventiva al malcapitato alunno, prima ancora di sentire il motivo di tale punizione.

Una volta capite le motivazioni si poteva ricevere una razione supplementare di schiaffoni se la bacchettata era dovuta ad un comportamento più grave rispetto a quello preso in considerazione per le botte già somministrate.

Così come un cattivo voto significava “la morte sociale” fino ad aver recuperato ed oltre.

Oggi sembra che i responsabili del rendimento negativo di un ragazzino siano i docenti. Anzi, sono proprio gli insegnanti che sono prevenuti, che non sono in grado di capire la genialità del proprio rampollo.

Io stesso mi sono sentito dire da una colorita genitrice, in un italiano improbabile, che i risultati scarsi della figlioletta di 13 anni erano dovuti al fatto che la stessa ‘non condivideva il mio metodo di insegnamento’.

Montessori, scansati!

Sì, perché nel nuovo sistema sociale, uno vale uno. Altrimenti sei classista. Altrimenti sei fascista.

Il parere del laureato della strada e di chi si informa sulle ‘libere enciclopedie’ vale quanto quello di chi di una disciplina ha fatto la ragione di vita.

Tutti sono autorizzati a pontificare su tutto.

La deputata semianalfabeta può permettersi di replicare alle dotte osservazioni di un esperto di economia di autorevolezza internazionale con un liberatorio: “questo lo dice lei”.

La lotta di classe è giunta finalmente al coronamento!

Non come qualche decennio fa, quando la stessa affermazione della tredicenne sarebbe stata accompagnata dal lancio di calzature e di oggetti contundenti vari da parte del genitore di turno.

Oggi, invece, se ai docenti va bene, sono ricorsi.

Altrimenti sono aggressioni, ormai tristemente all’ordine del giorno.

Il sogno sessantottino del 18 politico è finalmente esteso ad ogni ordine e grado scolastico.

La licenza media politica.

Il diploma politico.

La laurea politica, magari presa presso questo o quella università privata, che fa affari d’oro perché realizza anche a buon mercato il sogno di farsi chiamare “dottore”.

Non importa che siano più tipografie che stampano pezzi di carta a pagamento piuttosto che vere università.

L’importante è poter mettere il dott. o dott.ssa sul bigliettino da visita, in firma alla mail, sul profilo social; cosa che i laureati veri non fanno da decenni.

Ma delle università parleremo in un prossimo articolo, meritano, per come sono ridotte male, delle considerazioni a parte.

Tornando al nostro excursus, il colpo di grazia al sistema scolastico viene dato dalla riforma Buona Scuola del 2015 e dalla successiva Buona Scuola Bis.

Le materie considerate obsolete, come la storia, la filosofia, la matematica, la letteratura non sono più centrali. Viene introdotto un’ampia autonomia curricolare, per cui il programma svolto in un liceo classico di Bolzano potrebbe essere diverso da quello adottato nello stesso corso di studi a Bari.

O anche diverso in istituti differenti della stessa città.

Questo o quell’autore trattato o ignorato in base alle preferenze del singolo professore. Depennato perché magari lo stesso docente non lo ha mai capito o per la nazionalità in quel momento avversata dal mainstream.

Così come è rafforzato il concetto delle competenze contrapposto a quello delle conoscenze.

Un nebuloso e mal individuato “saper fare” si contrappone allo studio vero e proprio.

La motivazione è quella che una scuola così strutturata dovrebbe preparare meglio al mondo del lavoro.

Ma tutti i dati, anche quelli analizzati in questo scritto, dicono, in modo netto, che studiare serve sempre meno a lavorare. O, comunque, prepara sempre meno al mondo del lavoro.

Ancora Zalone più lucido di tanti ministri.

Nonostante i buoni propositi, resta valida l’affermazione – accusa del Prof. Vivaldi, interpretato da un ottimo Silvio Orlando sempre ne La scuola:

Astariti è la dimostrazione evidente che la scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno.

E funziona sempre meno anche per loro, aggiungiamo.

Il percorso si completa con la proposta di legge n. 2372, ‘Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale’.

Competenze non cognitive.

Nella scuola del futuro non ci saranno obiettivi didattici da misurare. In aula si andrà per socializzare, magari ognuno appiccicato al suo cellulare.

Ci saranno dei bellissimi tornei di videogiochi.

E tutti, ma proprio tutti, potranno completare gli studi.

Anche se, ormai, non si studierà più niente.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.

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