8 maggio 2016
Mattinata alla Mostra d’Oltremare. Il laghetto con il castello di Gondar ci aspetta. Nascosti nelle profondità della struttura, sono lì da ottant’anni. Circondati da alberi regalano una sensazione di stupore e magia che forse solo i bambini riescono a sentire.
Non so perché, ma cammino lento intorno al lago, affacciandomi, sbirciando all’interno del castello alla ricerca di qualcosa, di qualcuno. Una storia curiosa e triste circonda questa installazione fascista.
Riflettere e ricordare.
Riflettere e soprattutto non dimenticare.
Quest’opera, come del resto tante altre, deve costantemente portare alla nostra mente la nefandezza dell’animo umano. La bruttura di quella parte superficiale che il più delle volte prende il sopravvento, quella che governa il nostro vivere.
Il castello, con il suo laghetto, è il ricordo di una conquista, di una guerra assurda ed inutile come tutte le altre.
Personaggi e uomini. Genti e terre martoriate e violentate per nostra mano. E siamo qui, dopo ottant’anni, a chiederci ancora il perché delle diaspore. A condannare e a giudicare le loro storie.
Mi fermo per qualche attimo tenendo la mano di Ellie.
Mi vengono alla mente le tante persone figlie degli esodi che ho incontrato sul mio cammino.
Tantissime sono quelle che non conosco e che circondano il muoversi della mia vita.
Forse la prima volta che sentii parlare di migrazione fu alle scuole medie quando la professoressa F. di disegno ci raccontò quella della propria famiglia di origine armena e dell’orrore che dovette subire.
Altre gli esili familiari e personali che mi hanno accompagnato attraverso i racconti di chi le ha vissute, direttamente o meno.
La gente Rom con la quale ho lavorato per un anno alla scuola Deledda. Un anno in cui ho imparato a conoscere una cultura a me totalmente ignota, persone figlie di infiniti e continui espatri che fanno risalire la propria storia a popolazioni stanziate nel subcontinente indiano.
Conobbi un pezzo di storia dei lager nazisti che nessuno mi aveva mai raccontato.
Altro incontro fu Simona B., compagna di liceo, che mi parlava del nonno di origine istriana che in Italia cambiò il cognome da -vich in -ch.
Ora lei stessa ha portato la propria vita lontano dalla propria nascita, in sud America.
Di origine istriana anche la famiglia di un compagno di viaggio verso il lavoro, Mario C..
All’università poi conobbi Rocco B., la cui madre è di origini ebree.
Yannis S., amico greco che, come molti altri della sua terra, era qui per studio. Ha sposato una ragazza inglese, Anna, conosciuta nel nostro Sud.
Potrei continuare con Alessandro R. di C., di nobile famiglia austriaca con predicato siciliano, oppure con Gabriele R., discendente da Carlo R., storico di origini francesi.
O ancora Alessandro B. che ha radici nella Svizzera tedesca, ed Emmanuela M., nata in Brasile ed adottata da una coppia italiana. Lei, forse, è la diaspora.
Come non pensare, poi, ai genitori di mia moglie.
Entrambi srilankesi, da più di trent’anni in Italia, ma con origini completamente differenti.
La madre, Audrey Muriel Grabau, è di origine tedesca da parte di padre e portoghese da parte materna, con tracce olandesi sparse nel proprio sangue. Il primo della sua famiglia ad arrivare in Sri Lanka fu un certo Jan Grabau, capitano di una nave della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che naufragò sul finire del Settecento sull’isola a forma di foglia di tè.
Mio suocero, invece, ha sangue singalese. Appartiene al clan Warnakulasuriya, i cui esponenti furono tra i primi a convertirsi al cristianesimo sotto il dominio portoghese nel XVI secolo.
Tanti altri sono i figli e i nipoti di diaspore e migrazioni; figli di fughe, di guerre, di colonizzazioni, figli indotti di un’Europa che ora fatica a volere ed accettare.
Ecco allora la Mostra d’Oltremare, in un primo momento Triennale d’Oltremare, era il 1937, il complesso fieristico nato in epoca fascista per celebrare “la gloria dell’impero nell’Africa del Nord e nel Mediterraneo”, la gloria dell’Oltremare.
Il castello di Gondar, città imperiale etiopica occupata nel 1936 da Achille Starace – dalle imprese in Etiopia nacque il volume ‘Marcia su Gondar’, che non piacque, a quanto pare, a Mussolini, per il richiamo alla sua marcia su Roma, al punto che questi rifiutò di scriverne la prefazione – che fu ampliata e dotata di un piano regolatore da Gherardo Bosio.
Per onorare e mostrare le imprese d’Africa, fra le altre opere, fu riprodotto il castello di Gondar e il laghetto che lo circonda.
Castello e laghetto, originali, furono fatti costruire dall’imperatore di Etiopia Fasiladas nel 1635 o 1636.
La leggenda vuole che Fasiladas seguì un bufalo fino ad uno stagno nei pressi di Angereb dove un vecchio eremita gli predisse che lì avrebbe fondato la nuova capitale dell’impero.
Così l’imperatore fece riempire lo stagno, creandovi il lago, ed erigere il castello con elementi architettonici portoghesi, indiani e moreschi.
Il fulcro della cittadella nel 1979 fu dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Storia di una conquista fatta di morti e prevaricazioni. Nulla da onorare.
La follia che si materializza in un’opera dimenticata.
Ora è solo un castello su di un laghetto circondato da bambini e famiglie.
Riprendiamo a passeggiare seguendo le sponde del laghetto con il castello che segue i nostri passi come a chiederci di non dimenticare.
Autore Fabio Picolli
Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!