La deriva evoluzionistica
Per millenni gli esseri umani hanno vissuto in piccoli gruppi nomadi dediti alla caccia e alla raccolta di ciò che spontaneamente cresceva in natura.
Esistono ancora rarissimi gruppi umani, come i popoli ju/wasi del deserto del Kalahari, in Namibia, per esempio, che vivono ancora in questo modo, ma probabilmente, assisteremo all’estinzione completa di questo modello insediativo e umano a brevissimo termine.
Oggi la maggior parte della popolazione mondiale è concentrata intorno ai centri urbani, dove si sviluppano le reti di maggiore connessione tra poli di scambio e la periferia, dove affluiscono ingenti risorse economiche e costante forza lavoro. Ma tutti, tutti i popoli hanno un passato da cacciatori – raccoglitori.
Il passaggio avvenuto in migliaia di anni da un’economia perfettamente in sincrono con i tempi naturali a un modello societario spaccato tra ricchi e poveri ha da sempre costituito tra gli studiosi, e non solo, una questione irrisolta soprattutto per quanto riguarda le ragioni che hanno portato a questa deriva evoluzionistica.
I motivi per cui gli uomini cominciarono ad abbandonare il nomadismo per la faticosa agricoltura sedentaria e l’allevamento stanziale ci sono ancora sconosciuti. Ma soprattutto, siamo convinti che questo passaggio sia la risultanza di un transito a un modello migliore rispetto a quello di partenza?
Le nostre convinzioni in positivo rispetto alla giustezza dei nostri modelli e il sospetto che nutriamo nei confronti delle società che a tutt’oggi vivono in maniera completamente diversa, derivano, con ogni probabilità, dall’idea di progresso a cui fa capo il nostro mondo occidentale, che esalta sopra ogni cosa l’evoluzione tecnologica, il controllo e il dominio sulla natura.
Tra gli anni 1975 e 1990, l’antropologo statunitense Leslie White considerava la tecnologia l’elemento trainante del cambiamento e quindi dell’evoluzione culturale. Secondo le sue teorie, gli esseri umani cercano di produrre, attraverso la tecnologia, l’energia necessaria alla produzione di cibo, insediamenti e beni necessari alla sopravvivenza. Tale produzione, in termini quantitativi, è direttamente proporzionale alla totalità di energia utilizzata e all’efficacia della tecnologia messa in opera.
Alcune invenzioni tecnologiche, ad esempio l’aratro, i metalli, la ruota, la ruota idraulica, il mulino a vento, consentirono di ottenere raccolti più abbondanti, di allevare un maggior numero di capi di bestiame, accelerando notevolmente i tempi di evoluzione e allo stesso tempo incrementando la pressione demografica. Successivamente, lo sfruttamento di altre fonti energetiche, come il petrolio, il gas, il vapore grazie anche all’introduzione prima dei motori a vapore e poi a combustione interna, hanno aumentato esponenzialmente la quantità di energia a disposizione.
Secondo White, lo sviluppo culturale è fortemente determinato dall’efficienza degli strumenti utilizzati. Una tecnologia efficiente è funzionale alla trasformazione di energia per soddisfare i bisogni dei gruppi umani e queste società sono in grado, a loro volta, di produrre beni di consumo in maggiore quantità e di mantenere un numero di persone sempre più ampio. La capacità accresciuta di produrre per molti da parte di pochi ha permesso, inoltre, successivamente, ad altre figure con diversi ruoli di affinare le proprie capacità e abilità differenziandosi e specializzandosi all’interno del gruppo sociale.
È con la suddivisione e la differenziazione del lavoro che nasce e si sviluppa il commercio strutturato a breve e a lunga distanza, e con l’aumento demografico cresce anche l’esigenza di una migliorata organizzazione dello spazio e della società. Nasce, in altre parole, a questo livello di cambiamento culturale, lo Stato, inteso come centro amministrativo, politico ed economico.
Secondo altre e nuove teorie relative all’evoluzione culturale, però, la transizione dalle società di cacciatori – raccoglitori alla contemporanea società industriale, non sarebbe da descrivere come un progresso o un livello superiore di sviluppo; bensì un passaggio necessario dovuto alle contingenze di volta in volta contestuali. Questa interpretazione attribuisce particolare significato all’aumento della densità di popolazione, ovvero al numero di individui occupanti un’area.
Secondo l’antropologo statunitense Mark Cohen, quando in un’area specifica aumentava la presenza umana fino a raggiungere il momento in cui diverse popolazioni si incrociavano, o aumentavano con la crescita della popolazione, anche le distanze per il raggiungimento dei territori favorevoli alla raccolta, l’agricoltura sedentaria e il modello stanziale prendevano il sopravvento.
Studi archeologici, grazie ad analisi palinologiche e archeobotaniche, dimostrano che spesso entrambe le attività, di coltivazione e raccolta, furono praticate contemporaneamente, fino a quando la fatica di spostarsi sempre più in là per trovare cibo a disposizione superò di gran lunga la fatica dell’agricoltura sedentaria.
Autore Marilena Scuotto
Marilena Scuotto nasce a Torre del Greco in provincia di Napoli il 30 luglio del 1985. Giornalista pubblicista, archeologa e scrittrice, vive dal 2004 al 2014 sui cantieri archeologici di diversi paesi: Yemen, Oman, Isole Cicladi e Italia. Nel 2009, durante gli studi universitari pisani, entra a far parte della redazione della rivista letteraria Aeolo, scrivendo contemporaneamente per giornali, uffici stampa e testate on-line. L’attivismo politico ha rappresentato per l’autore una imprescindibile costante, che lo porterà alla frattura con il mondo accademico a sei mesi dal conseguimento del titolo di dottore di ricerca. Da novembre 2015 a marzo 2016 ha lavorato presso l’agenzia di stampa Omninapoli e attualmente scrive e collabora per il quotidiano nazionale online ExPartibus.