Splendido debutto nazionale dell’opera di Carole Fréchette
La stagione della ripresa dopo il Covid del Nouveau Théâtre de Poche di Napoli, battezzata con l’emblematica etichetta di ‘Effetto Farfalla’, si è chiusa con la messa in scena de ‘I sette giorni di Simon Labrosse’, opera della drammaturga canadese Carole Fréchette.
Non smette di incantare e di stupire, il de Poche, sebbene nel corso degli anni ci abbia abituati a lavori di una qualità straordinaria, eccellenza allo stato puro.
E continua a sfornare talenti.
Sono proprio le nuove leve che scovano, traducono in modo estremamente fedele e portano alla ribalta quella che è una novità assoluta per l’Italia, dove l’autrice non è stata mai messa in scena. Lo spettacolo è infatti prodotto proprio dal Nouveau Théâtre de Poche.
Sebbene risalga alla fine degli anni 90, ‘Simon Labrosse’ è straordinariamente attuale nel fotografare la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Le sue emozioni e le sue paure ci sono tutte.
Solitudine, isolamento, impossibilità di comunicare, disperazione, ma anche amore, speranza, voglia di non arrendersi, di ‘reintegrarsi nella vita attiva’, come dirà Simon.
Sala gremita. Pubblico partecipe che, tra risate e silenzi carichi di intensità, segue attentamente la pièce. E applausi scroscianti.
Simon, uno strepitoso Gennaro Madonna, è un disoccupato alla perenne ricerca del suo posto nella società, pieno di idee infallibili, che dovrebbero portarlo a trovare finalmente una fonte di entrate tale da permettergli di pagare le spese, affitto su tutte.
L’ultimo espediente è proprio quello di mettere in scena, in un’originale scelta metateatrale, sette giorni della propria vita, aiutato da Léo, straordinariamente interpretato da Flavio D’Andrea, il suo unico vero amico, e da Nathalie, impersonata magistralmente da Niamh McCann, una ragazza conosciuta da poco, ossessionata da uno sviluppo personale.
Ognuno dei personaggi è, a suo modo, il paradigma di una sfaccettatura umana.
Ottimista, Simon, oltre ogni avversità, a dispetto degli scarsi risultati di ogni suo tentativo di integrarsi nella società attraverso un lavoro che possa finalmente dargli una collocazione, un’identità.
Professioni improbabili, quanto simboliche. Una per giorno. Una per cravatta, quelle che il protagonista indossa ogni mattina, regimental, tranne l’ultima.
Stuntman emotivo, pronto a sostituirsi a pagamento nei momenti più ‘pericolosi’ delle relazioni umane. Nel discutere con la moglie dopo una giornata spossante, quando si vorrebbe solamente trovare svago in un programma televisivo leggero. O nei momenti di condivisione con un proprio genitore.
Spettatore personale, disposto a seguire gli anonimi momenti di esistenze ordinarie, come se si trattasse di coinvolgente serialità televisiva.
Terminatore di frasi, per completare le locuzioni lasciate a metà, non concluse, per mancanza di capacità espressiva, per povertà di vocabolario. Per assenza di coraggio.
Adulatore di ego, bravissimo nel tessere le lodi sperticate del suo cliente, di solleticarne l’amor proprio.
Agitatore di coscienza, capace di prendere sulle spalle le preoccupazioni del mondo, ma, soprattutto, di rivendicarne le istanze di fronte alle piccole e grandi ingiustizie della società.
Destinatario di pacchi, che, forse involontariamente, nel contesto napoletano, assume altre sfumature di significato e, al contempo, innamorato a distanza, innamorato dell’amore, del sogno dello stesso, abbandonato ad idealizzazioni e fantasie dell’oggetto sentimentale.
E, più che identificarsi nel personaggio, lo spettatore si ritrova nei bisogni che Labrosse vorrebbe colmare.
Quelli che Bauman avrebbe identificato come effetti della paura liquida.
Chi di noi non avrebbe desiderato una controfigura nei momenti noiosi, spinosi, urticanti della propria esistenza?
Poter fermare degli istanti penosi con uno stop, come si farebbe sul set di un film, per far entrare uno stuntman al proprio posto, a correre rischi e a subire fastidi?
Oppure non vorrebbe che la propria vita potesse essere degna di attenzione, attirando l’interesse di chi lo circonda? Sentirsi i riflettori puntati addosso?
O, magari, avere, semplicemente il quarto d’ora di notorietà? Esigenza in parte surrogata dai social, dove ognuno si sente in dovere di commentare qualsiasi episodio di cronaca, a scimmiottare i toni di veri opinion maker, facendo finta che a qualcuno possa veramente interessare il proprio parere.
E quante volte nella vita ci viene da pensare che in quel momento avremmo potuto dire qualcosa? Con il senno di poi completare frasi, momenti, sentimenti lasciati appesi? Sarebbe potuto essere…
Così come a tutti piacerebbe essere solleticati nel proprio ego, sollevati nella propria autostima. Per pensare, forse per illudersi, di avere qualcosa da dire. Di valere, di essere apprezzati.
E sarebbe comodo lasciare sulle spalle di altri le proprie responsabilità sociali. Sollevarsi dal peso di problemi, guerre, povertà, inquinamento. Guadagnare un’altrimenti improbabile leggerezza dell’essere.
E ci si identifica nelle attese di notizie che non arrivano, chiamate che tardano.
Negli amori fantasticati, sperati, idealizzati, solo sfiorati o stretti in un abbraccio liberatorio.
Ma l’universalità di questi desideri da appagare non garantisce a Simon lo sperato ritorno economico, con le scadenze e i pagamenti che bussano alla porta.
Eppure, non si lascia demoralizzare dai fallimenti, non del tutto, almeno. Ogni sera irrobustisce la bevanda che consuma. Dal tè, al caffè, da una birra leggera al whisky, prima solo assaggiato, poi, tracannato.
Anche se ad un certo punto ha paura di avere un problema cognitivo che gli impedisca la visualizzazione mentale degli oggetti del suo pensiero, che si focalizza sull’incapacità di immaginare il futuro.
Ma non si lascia travolgere da soldi non guadagnati, da lettere non arrivate.
Decide, infine, di provare a vendere la sua vita mettendola in scena.
Se Simon è la speranza, Léo è l’opposto.
Cupo pessimismo. Disperazione.
Colpito alla testa da bambino da un mattone che gli danneggia la parte del cervello che genera le sensazioni positive.
Emblematicamente è impossibilitato, in modo patologico, ad essere felice, persino a pronunciare parole che esprimano ottimismo.
Scrive poesie catastrofiche, non riesce a concentrarsi nella messa in scena dei sette giorni di Simon, che, di contro, desidera avere successo anche per avere la possibilità di far sottoporre il suo amico ad una fantomatica operazione negli Stati Uniti in grado di guarirlo.
Léo è il personaggio più struggente di tutti. In una scena semplicemente da brivido, in cui Flavio D’Andrea mette in mostra tutte le sue straordinarie capacità recitative, lascia esplodere il suo odio verso tutto e verso tutti, ma fondamentalmente verso se stesso.
Fino a lasciarsi andare ad una considerazione lacerante:
Osservare che la mia vita brucia, ma non scalda nessuno!
Apparentemente distaccata è Nathalie, che risponde ad un annuncio di Simon, in cerca di collaboratori per la recita teatrale incentrata sulla sua vita.
Eterna studentessa di improbabili corsi in cui imparare, ad esempio, a capire la bocca.
Personalità assertiva, oltre ogni situazione, diventa, in qualche modo, una rivelazione del finale che non riveliamo.
La scenografia, essenziale e funzionale, è merito di Stefano Sorrentino. Un tavolino a cui Simon si appoggia, un apparecchio e delle cassette su cui registra innumerevoli messaggi per la sua amata, partita per l’Africa per aiutare i poveri.
Delle sedie. Un appendiabiti che diventa separé dietro al quale Niamh si cambia, indossando i diversi abiti di scena, e che, ad un certo punto, diviene anche telo su cui proiettare immagini. Delle grucce a cui sono appese le cravatte, che scandiscono i sette giorni. Un tappeto di erba sintetica. E poco altro ancora.
Calzante la scelta dei costumi operata da Fabiana Amato, in particolare quelli dell’unico personaggio femminile sul palco, che sottolineano le complesse sfumature dei caratteri che Niamh rende a perfezione.
Incisivo il disegno luci di Gennaro Madonna. Puntuale il dramaturg di Daniele Giampaolo. Ottimo il lavoro degli assistenti alla regia Cristina Calandro e Marianna Bentivoglio. Prezioso il supporto dell’aiuto regia Irene Latronico.
Assolutamente impeccabile la regia di Davide Raffaello Lauro. Tutto sul palco è perfettamente sincronizzato, curato nei dettagli, per un’intenzione registica chiara e coerente.
Così come ritroviamo quelli che erano già dei talenti fuori dal comune, che avevamo apprezzato in altre messe in scena, che, da promesse, sono sbocciati come splendide realtà.
Il processo di maturazione di Flavio D’Andrea, Gennaro Madonna e Niamh McCann è stato semplicemente stupefacente.
Li abbiamo trovati incredibilmente cresciuti, padroni della scena e della propria espressività, più di quanto lo fossero in precedenti performance.
Siamo sicuri che abbiano tutti i numeri per esprimersi ad altissimi livelli nel panorama teatrale italiano.
In definitiva, uno spettacolo da non perdere, come tutte le rappresentazioni del Nouveau Théâtre de Poche.
Innanzitutto, per godere delle magistrali interpretazioni dei giovani attori in scena.
Poi, per conoscere una drammaturga come Carole Fréchette, che, ribadiamo, è una novità assoluta nel contesto italiano.
Sorpresa piacevolissima.
‘I sette giorni di Simon Labrosse’, opera che inchioda alla poltrona, fa ridere di gusto ma anche con un retrogusto amaro, commuove, fa riflettere.
Fa identificare.
Fa sentire il bisogno di un colmatore di vuoti.
Repliche il 20 e 21 maggio e il 26, 27 e 28 maggio, feriali ore 21:00, festivi ore 19:00.
Per info e prenotazioni:
Nouveau Théâtre de Poche
Via Salvatore Tommasi 15/16
Napoli
081-5490928 / 331-2714592
theatre.depoche@libero.it
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.