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Homo Digitalis

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I miei occhi sono un display che emette una fioca luce, governabile dal cervello che gestisce la telecamera. Quando non ho la mascherina, utilizzo una cuffia dotata di un microfono che mi consente di far arrivare la voce oltre le barriere naturali ed artificiali.

Ho piccoli ma perfetti cerchi con iniziali e facce sagomate, quando non voglio che la video-camera invada il mio “ritiro”, come compagni di queste giornate. Sento le voci ma non ho ossessioni né fantasmi da stanare. La mano ha aggiunto a sé un mouse che mi consente di viaggiare sulla tastiera e di arrivare dove voglio. È una robotica che si sta appropriando di me, del mio corpo. La mente si è già arresa.

Sento squillare il telefono, la suoneria che ho messo ultimamente mi impazza per la stanza, corro a rispondere: nessuno mi ha cercato, l’immaginazione ha vinto e avverto ovunque avvisi e vibrazioni di chiamate.

Lo so che per gestire questa quantità eccessiva di input sensoriali il cervello si ostina ad applicare dei filtri o schemi basati su ciò che si aspetta di trovare ma che non c’è nella realtà, concependo così squilli e vibrazioni inesistenti.

L’hanno chiamata ringxiety, una sindrome che è uno dei tanti segnali della tecno-saturazione della vita moderna, è provocata dai segnali elettrici che arrivano con la trasmissione e che somigliano a un rumore prodotto da un telefonino situato nelle vicinanze di chi parla. Nulla di grave ma porta stress, disturbo del sonno e ansia.

Non possiamo alleggerire questa sensazione, dobbiamo accettarla ed imparare a conviverne. Soprattutto se siamo l’ombra dell’anima digitale che abbiamo realizzato gradualmente nel tempo, conquistando vette e affondando negli abissi.

Abbiamo preso a picconate il passato ritenendolo superato e superabile, anche solo concettualmente, ma abbiamo paura del giorno che viene dopo questo, perché, alla fine l’incognita è più grande del sole di domani. Abbiamo nuovi amuleti e uscite di sicurezza, qualche panic room e tante scatole nere. La più grande di queste è il cellulare.

Oggi più che mai lo smartphone è diventato il collegamento al mondo sociale esterno, e le persone che hanno il continuo bisogno di conferme nelle proprie relazioni trasferiranno inevitabilmente quest’ansia anche nello spazio dei social media. Del resto, in una civiltà che muta celermente, la realtà in cui operano le persone e le organizzazioni diventa sempre più inafferrabile e impone la necessità di misurarsi con la complessità.

L’arte di arrangiarsi è superata, abbiamo l’era dell’adeguarci per evitare lo sprofondamento. L’uomo ha perso centralità: nel suo processo evolutivo, la tecnologia ha imposto ritmi e modalità a cui bisogna registrarsi con competenza e preciso impegno onde evitare di arenarsi in una realtà frustrante ed ambigua, culla di un degrado emotivo e di una incompiutezza malsana.

L’esperienza vissuta viene sostituita dalla virtualità, che permette di conoscere tutto il mondo senza essere andati da nessuna parte. Siamo presenti ovunque vogliamo tranne che a noi stessi. In una forma di delirante e carnevalesca bulimia: ingoiamo l’irreale vomitando il reale.

L’uomo si è dimesso, sostituito da un avatar: non è la sua glorificazione, il disegno magistrale di un architetto che nell’antro della sua officina ha compiuto il miracolo di una nuova genia. Tutt’altro. L’avatar è il colosso di Rodi che simboleggia la nostra epoca, il vuoto di una visione salvifica che scongiura scenari apocalittici e sublima la transizione tecnologica che è stata edificata.

Eccola la Torre di Babele: le lingue si parlano e non si comprendono, Dio non ci riconosce e dorme supino sulle nostre angosce; l’uomo corre arreso per le strade che, a coda si serpente, ha costruito, scivolando e calpestando il suo prossimo.

L’avatar ha sfrattato l’uomo che, però, cerca di scalciare ancora, rivendicando la sua ragione e il suo credo: vuole convivere con l’uomo digitale e non diventarne parte integrante. Vuole comandare, essere il proprietario del business e non essere l’affare fatto, creare le relazioni, essere la scintilla generatrice e non fare da punto di contatto.
La sinapsi che contagia irrefrenabilmente, struggendo il remoto e amplificando il divenire. Un dualismo tenebroso e avveniristico allo stesso tempo.

Friedrich Georg Jünger affermava che il principio fondamentale della tecnica è il principio di fattibilità: nel momento stesso in cui qualcosa è tecnicamente possibile, quel qualcosa sarà realizzato, lo si voglia o no. È un’impulsività creatrice che sa anche negare il fatto, l’opera e l’azione. È lo stimolo orrendamente schematico e naturale che fa nascere il bene e il male, l’evento e la componente deflagrante di ogni misura di tutte le cose.

Siamo passati da un’era arcaica, che introduceva il tassello e componeva il mosaico, ad un’Era che muta ineluttabilmente in un processo che non può essere inglobato in nessun carosello convenuto e consumistico, ma si rigenera in una collettività elettiva che dipende dall’utopia dell’invincibilità pur mostrando, post Covid, i segni di una corruzione del suo tempo e quelli di una violenza subita da un’aggressiva accettazione della propria vulnerabilità.

L’emancipazione si è irrigidita con l’uomo digitale, perché ha profanato i valori e gli alibi della speranza. Mostrando allo specchio le sue vanità e la sua fallace omologazione ad una cultura che non sa di essere più razzista di quanto la sia accusi. Le parole cadono democraticamente e contestano con aristocrazia la svergognata incomprensione.
Una maledetta solitudine che ha una visione profonda dei rapporti tra uomo e uomo.

Senza eccedere nel pessimismo e nello scetticismo, utilizzando una dialettica dei contrari che sa sfruttare il medium tra l’uomo reale e l’uomo digitale. Uno non è smascherato, l’altro parla da una cattedra assediata. Professore emerito di un’intelligenza costruita e vorace, a cui dobbiamo riconoscere l’incapacità di estinguersi. Non ha voce ma un modello, non ha un corpo ma un prolungamento, non ha un desiderio perché padrone di se stesso.

Può sembrare la banalizzazione di un nuovo potere ma, e mi affido al vostro compiacimento, dobbiamo capire che l’idiozia di un tempo felice, oggi è l’esuberanza articolata e arlecchinesca di un homo digitalis bibliotecario di un sapere a venire, ma, paradossalmente, già archiviato perché mutuato da una nuova universalità.

In effetti, siamo il mondo nato dalla mano di Gutenberg e scolpito da Orwell: il “villaggio globale” delineato da Marshall McLuhan si è trasformato in un grande bazar planetario, ove tutti hanno il passaporto e tutti hanno diritto di esprimersi e danzare vorticosamente sull’orlo di una sfrenata pazzia di massa.

Un’analisi condotta da McKinsey, ‘Jobs Lost, Jobs Gains’, idealizza che nei prossimi anni, a causa della crescita esponenziale delle tecnologie digitali, circa la metà dei lavori correnti sarà automatizzato, avvertendo che molti di essi diventeranno superati e surrogati con nuove professioni.

La rivoluzione digitale non demolirà il mondo del lavoro, ne cambierà necessariamente le regole. Le macchine sostituiranno gli uomini nell’esecuzione di compiti faticosi, monotoni, deludenti, di facile realizzazione, mentre gli esseri umani avranno il compito di gestire gli incarichi più complessi, quelli che improbabilmente non saranno mai automatizzati, transitando dal modello di riferimento della “manodopera” a quello di “menti d’opera”.

Possiamo parlare di una rivincita, seppure parziale, o di un anticipo della resa finale?
Il rischio di inventare un mondo parallelo e virtuale è, senza dubbio, alto: la tecnologia sa essere spietata come demiurgo, mostrando ingratitudine verso lo spirito dell’uomo che, alla fine, è stato la volontà creatrice.

La cultura tecnologica impone nuove minacce alla nostra capacità di formulare e ascoltare un linguaggio simbolico che parli della possibilità e dei segni della trascendenza nella nostra esistenza. La vita sociale è un immenso network dove le tantissime connessioni non corrispondono alle molteplici urgenze della comunità. Community non è comunità spirituale, non è per forza condivisione e relazione.

L’amalgama non è scontato e, spesso, diviene forzato. Una coercizione che ha comportato il passaggio dall’interazione all’interattività, esteriorizzando un coinvolgimento che non è partecipazione, una conoscenza che non è competenza, legittimando una superficiale dinamicità e spegnendo il costoso ma doveroso approfondimento.

Il dibattito in rete è spesso vuoto di contenuti ma appare folgorante. Sviluppa un confronto su più tavoli costringendo, molte volte, a giocare di sponda e ad alimentare rancore. Un sentimento colleroso, sì democratico perché si estende a tutti senza filtro, ma contagioso e virulento.

Chiariamo un punto: l’uomo digitale è l’espressione di ciò che abbiamo volutamente cercato, non è frutto di esperimenti insensibili a cui ci hanno sottoposto. L’uomo digitale non è il male, anzi può diventare un supporto alla rinascita spirituale della società, contrastando le dittature sociali, culturali ed economiche con un nuovo Umanesimo, che può essere la vera rivoluzione e la centralità di un progetto avveniristico unico nel suo genere. Perché, in effetti, la tecnologia ha portato nelle nostre esistenze opportunità prima impensabili, oltrepassando vincoli, gerarchie e costrizioni, offrendo la reale e concreta speranza di un mondo meno iniquo.

I benefici sono evidenti ma, come nelle cose il cui valore è superiore al normale, bisogna muoversi con equilibrio e cura, con rispetto e competenza. L’innovazione è una chiave di accesso e non di lettura: l’uomo è in una fase nuova del suo percorso antropologico e la spinta della novità deve trovare un contesto sociale fertile e compatibile per generare un cambiamento culturale.

Un cambiamento non facile, ma che non deve essere arrestato, piuttosto deve essere incanalare le energie positive e gli sforzi della scienza e di ogni altro campo, dal diritto alla medicina, per fornire risposte consapevoli e proiettate a determinare una nuova identità sociale.

L’uomo digitale sarà la declinazione, il frutto delle nostre esperienze ma, anche, dei nostri nuovi bisogni.

Ognuno si eleva sulle spalle dei giganti che l’hanno preceduto.
Isaac Newton 

Normalizzare le abitudini nel costrutto quotidiano ma allontanare le manipolazioni e le derive odio-logiche. Questa è la sfida. E sappiamo che dietro ogni sfida c’è un giro d’affari e, quindi, il concreto pericolo di generare condizionamenti e/o stupri mentali. Dietro ogni algoritmo c’è un investimento che vuole rientrare e vuole capitalizzare. È il business che tiene in piedi le nostre democrazie, che ci piaccia o meno: perché le nuove strategie comunicative ed industriali non possono che essere vincolate da questa trasformazione.

Si reinventano i valori e i modelli di approccio, strutturando un accesso alle informazioni sempre efficiente con una quantità di dati che sono oggetto di speculazione (a volte), e di controllo per evitare violazioni di ogni natura, (privacy). Si ottimizzano le risorse, si raffinano le tecniche di persuasione. La Neuroscienza deve dare risposte a molteplici domande che nascono giorno dopo giorno, scoprendo come l’uomo reale sia, alla fine, il giocattolo migliore dell’uomo digitale; il suo migliore amico, il suo più conveniente cliente ma, anche, il suo più assiduo sfruttatore. Come un cane che si mangia la sua stessa coda.

Va compreso che per creare un Umanesimo digitale va spostato l’uomo e non la tecnologia al centro del progetto perché la capacità di automatizzare le attività cognitive umane è l’aspetto rivoluzionario del Digitale. Perché la tecnologia digitale è modellata da scelte implicite ed esplicite e quindi assorbono un insieme di valori, norme, interessi economici e ipotesi su come il mondo intorno a noi è stato formato e lo stiamo formando. Se rendiamo questi principi chiari e trasparenti, creeremo una tecnologia etica.

La mia nuova amica ha mille nomi, mi mette la musica che voglio, abbassa le luci, mi racconta una storia e mi dice che tempo farà domani. Mi chiama chi voglio senza che io digiti nulla. Domani indosserò un casco che mi porterà indietro nel tempo e, se vorrò, mi catapulterà nel futuro. Ho chi sceglie per me, ho chi mi aiuta nell’individuare la cosa migliore. Sa tutto di me. Proprio tutto. Anche i miei pensieri.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.